Per arrivare al Parco Nazionale di Gorongosa viaggiamo sulla N6 che da Chimoio va verso Beira. Una importante arteria stradale dove transitano i grandi autoarticolati che arrivano da Zimbabwe, Malawi e Zambia diretti verso il porto mozambicano. Pedro, il nostro autista, guida guardingo superando d’infilata sulla corsia di destra lungo rettilinei che si perdono verso l’orizzonte, intorno una savana immensa, grandi distese di terre verdissime e rigogliose che sconfinano da entrambi i lati della carreggiata.

IN ALCUNI TRATTI SCORGO DAL FINESTRINO sulla corsia sinistra di transito le carcasse arrugginite delle auto incendiate durante i combattimenti della guerra civile ancora addossate sull’argine. Il parco, infatti, quattromila chilometri quadrati di savana, che prende il nome dal massiccio che si vede sullo sfondo, cuore della guerriglia, è rinato dopo vent’anni di scontri armati e imboscate dal 1976 al 1992 dopo l’indipendenza dal Portogallo tra l’esercito mozambicano – che faceva capo al partito Frelimo – e i ribelli della Renamo; e per altri sei anni dal 2013 all’agosto del 2019 quando fu firmato a Maputo il definitivo accordo di pace. Un conflitto cruento che si è sviluppato soprattutto nelle aree rurali della nazione africana e ha provocato un milione di morti tra i soldati e la popolazione civile, e oltre quattro milioni di profughi e sfollati, ma non ha risparmiato neanche gli animali che abitavano queste terre, perché il 95% di questi grandi mammiferi sono stati abbattuti dai guerriglieri per cibarsene o vendere pelli e avorio nei mercati internazionali. Scomparvero leoni, elefanti e giraffe, ma non si estinsero i coccodrilli del Nilo, ancora tuttora presenti in numero significativo nella riserva. Oggi, soprattutto grazie alla Carr Foundation, una organizzazione no profit americana fondata da Greg Carr, il milionario fondatore di Voice mail, che ha firmato un accordo con il governo mozambicano per far rinascere il parco, qui vivono elefanti, ippopotami, leoni, gazzelle, tapiri, oltre 500 specie di uccelli, in un paesaggio di folte foreste, paludi lacustri, immense praterie.

QUANDO ARRIVO VISITO GLI STABILIMENTI dove vengono preparate le confezioni delle produzioni del parco, quelle di caffè, innanzitutto, ma anche di miele, prodotto da 522 piccoli apicultori nei cinque distretti dell’area. Lì mi aspetta uno di loro, Joaquim Chico Victorim, che nel maggio del 2021 ha ricevuto le prime 10 arnie tra le 350 messe a disposizione con un finanziamento dall’AICS, l’agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo, la quale ha aderito al progetto del Ministero dell’Agricoltura PSSR, cioè al Piano di sviluppo e sostegno rurale. È un giovane basso di statura molto schivo, la voce sommessa, il gonfiore nelle arcate sopraccigliari simile a quello di un boxeur dopo un duro combattimento, perché, racconta, ieri due api sono entrate da un buco nella maschera protettiva che usa e lo hanno punto in faccia e sull’orecchio. «Capita», dice, «succede che quando devo pulire le arnie le api si agitano e mi pungono».

LUI ABITA IN UN VILLAGGIO QUI VICINO ma l’appezzamento che coltiva e dove si trovano gli alveari sta in montagna, un ettaro coltivato a mais, sorgo, fagioli e manioca sulla selva di Gorongosa, a venticinque chilometri da qui, ci arriva con la motocicletta ogni giorno, e per mantenersi carica anche altri due contadini facendo il servizio taxi. «Questa è una zona estremamente povera, vent’anni di guerriglia ha distrutto ogni cosa» mi spiega, «c’è gente ridotta alla povertà e alla fame, almeno con questi progetti riusciamo a sopravvivere». Nell’ultimo anno ha prodotto 70 chili di miele e con la prima vendita ha acquistato un altro appezzamento di tre ettari, dice che continuando di questo passo potrà diventare autista, «sognavo di prendere la patente ma non avevo i soldi per pagare le lezioni della scuola guida, con il lavoro del carro potrò far studiare i miei figli», racconta.

Addetta alla vendita del miele, Parco Gorongosa

ARRIVANO ANCHE I TECNICI DI AGRICOLTURA e apicoltura che assistono gli allevatori, Jona Chimuaza e Sónia Josè Costa, sono loro che seguono tutte le fasi della produzione recandosi regolarmente nei terreni dove lavorano. «Prima di ricevere le arnie – mi spiega Jona – i contadini facevano dei favi artigianali con le cortecce delle piante, abbattendo gli alberi d’alto fusto, e quando è cominciato il progetto molti di loro erano diffidenti, poi quando hanno visto la quantità di miele prodotto si sono convinti». Sonia sostiene che l’apicultura ha aiutato molto le comunità, «è uno dei grandi obiettivi del parco, vogliamo promuovere la sostenibilità, da una parte si sviluppa la vita delle api, molto importanti per l’ecosistema e grandi vettori di pollinizzazione, dall’altra la produzione agricola di sostentamento e sviluppo, con questa attività garantiamo la vita degli insetti, l’economia dei contadini e la conservazione della biodiversità».

PIÙ TARDI SALGO SU UN GRANDE fuoristrada con i tecnici Sónia, Jona, e la fotogiornalista Jarado Cher, ci mettiamo in viaggio e andiamo in una zona del parco dove operano sul campo gli apicultori. Lungo la strada incontriamo piccoli villaggi, case mattoni di terracotta con i tetti di paglia, ragazzi e donne seduti a terra con vicino i cesti di frutta che fanno piccolo commercio sperando che qualcuno si fermi a comprare. Avanziamo su una strada sterrata e polverosa piene di buche, saliscendi fangosi, passando i quali l’auto traballa, ondeggiando, prima di riprendere una marcia regolare. Mentre viaggiamo ci vengono incontro indomiti motociclisti, donne che camminano con misurata ed elegante lentezza, in testa gerle, taniche, o che tengono sulle spalle pesanti fascine, bambini giocano sui margini lanciando un vecchio copertone con un giunco.

DOPO CINQUANTA MINUTI DI VIAGGIO nel cuore del parco, nella calura afosa, l’autista accosta, scendiamo dal fuoristrada. Lì ci aspetta Abìlio, un uomo piccolo e magro, indossa una maglietta verde e pantaloni scuri slabbrati, lo seguiamo camminando in fila indiana lungo un viottolo lì dove comincia un villaggio di capanne e case in mattoni. Più avanti, sotto un bosco di acacie, ci fa vedere l’apiario con le sue 13 arnie, pregandoci di parlare sottovoce per non agitare i suoi preziosi ma facilmente irritabili insetti. Dopo ci muoviamo circospetti come in un sacrario. Abìlio lavora i campi tutti i giorni, dall’alba al tramonto, ma si dedica alle sue arnie una volta la settimana, viene qui nel tardo pomeriggio per non essere punto, taglia l’erba, mette la cenere intorno alle arnie per allontanare le formiche, «per me le api sono importanti, oltre ad essere una fonte di reddito e al fatto di farci vivere meglio, il miele che producono fa bene al corpo, io lo mangio con le patate dolci la mattina», racconta.

SEMPRE IN QUELLA ZONA INCONTRIAMO Ciada Jequassene, una donna molto timida e silenziosa, indossa una maglietta bianca con la scritta New York e sotto una capulana gialla che le fascia i fianchi, «ci hanno dato le arnie due anni fa, non avevo mai fatto miele, prima coltivavo solo la terra». Con lei c’è Donìsia Bito, tiene un braccio un bambino piccolo mezzo addormentato, «quando vedo le api nell’aria penso: magari potessi portarle nella mia arnia, aumenterei la produzione di miele!» confida. «Sono operaie, lavorano come noi per darci il miele che ci serve per acquistare i vestiti, le sementi, i libri di scuola per i nostri bambini», sostiene ancora Donìsia. Jambo, invece, un uomo calvo dalla testa grossa e gli occhi scuri, quando gli chiedo che rapporto ha con il suo alveare, sostiene confessando il suo stupore: «Pensa, prima le schiacciavamo, le uccidevamo, per noi le api erano solo insetti fastidiosi durante il lavoro nei campi», adesso invece hanno un rapporto simbiotico con loro. E ammette ingenuo: «Non ho ancora visto l’ape regina, non la riconosco, ma adesso ho una grande voglia di conoscerla!».