«Fogo no lodo» di Catarina Laranjeiro e Daniel Barroca

«Tutto il mondo dentro Lisbona» recita lo slogan della ventunesima edizione di DocLisboa, il festival che ogni anno porta nella capitale portoghese le visioni più stimolanti del cinema documentario internazionale. Sugli schermi del Culturgest, il centro d’arte contemporanea situato nella moderna area di Campo Pequeno, come nei più centrali e storici cinema São Jorge e Ideal, si intrecciano diversi filoni tra registi affermati – da Werner Herzog a Frederick Wiseman passando per Adachi Masao e Franco Maresco –, opere inedite da scoprire e ricerca storica delle retrospettive, spesso orientate da un interesse per il cinema politico o militante. Un afflato questo che può essere esteso all’intero DocLisboa, nel momento in cui pone al centro la «realtà» nelle sue contraddizioni piuttosto che il cinema d’intrattenimento della grande industria.

La pioggia di questi giorni non ferma la vivacità di Lisbona, che pure però si scontra con gli eventi che deflagrano in Medio Oriente – la città è piena di scritte pro-Palestina sui muri, e questo sembra essere anche l’umore del festival. Il «tempo reale» irrompe nelle sale la prima volta con il film Tzipora and Rachel are not dead della regista israeliana Hadar Morag, che si presenta con una maglietta su cui è scritto «No democracy with occupation» in inglese ed ebraico. La commozione è palpabile nelle parole a fine proiezione, dove Morag attacca duramente il governo Netanyahu e chiede di abbandonare la strada senza uscita della vendetta mentre la protagonista del film, Tahel Ran, intona una canzone per la pace.

Rappresenta una sorta di controcampo il dittico della regista libanese Danielle Arbid. A Killer e Alone with war sono stati entrambi girati nel 2000, a Beirut. Arbid cammina per strada, parla con le persone, fa domande sulla guerra civile. Perché non c’è un monumento per ricordarla? Perché nessuno, in effetti, vuole farlo. La strada imboccata è quella della rimozione, l’unico nemico è ora Israele, di identificazione decisamente più semplice – ma intanto i bambini giocano lì dove c’è stato il massacro di Sabra e Shatila, e quando scavano trovano teschi.

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Danielle Arbid, il racconto della guerra nel sentimento del vissuto quotidiano«QUESTO FILM è rimasto bloccato nel tempo, e noi con lui. L’ho girato per rispondere a questa domanda: come si può uccidere? Io potrei uccidere? – afferma la regista nel dibattito che segue la proiezione – non credo a persone nate buone o cattive, credo che lo diventiamo». L’incontro si fa più teso sul tema del lutto. «Ogni persona morta è unica e va ricordata. A Beirut non c’erano monumenti, oggi non possiamo scrivere sui social i nomi delle vittime. Continuo a pensare ai palestinesi che vivono da sempre in guerra, ho paura che la violenza porterà altra violenza perché nulla scompare. Di quello che accadrà dopo l’occidente è responsabile».

Di una guerra diversa, ma solo in parte, parla il film dei francesi Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz, Nouveau Monde! (Le monde à nouveau). I registi tornano sull’isola di Ouessant cent’anni dopo Jean Epstein, che vi aveva girato La caduta della casa Usher. La camera inquadra il paesaggio, gli animali, gli abitanti umani. Un disertore si aggira per le campagne, declamando un poema – scene evidentemente influenzate dall’opera di Straub e Huillet – e in questo ecosistema ricco di riferimenti si delinea una riflessione sullo statuto dell’immagine nella contemporaneità. «Abbiamo troppe immagini negli occhi, nell’intestino, nella merda». Ne siamo modificati. E sono sempre loro a restituirci, in maniera più immediata, la realtà della guerra – il conflitto ucraino compare nell’ultima parte del film. «Le immagini sono in guerra contro di noi: con la propaganda e il marketing ci aggrediscono. Se il cinema porta sempre con sé un passato, noi volevamo provare a filmare come se fosse la prima volta – affermano i registi – e in questo senso, la natura e gli animali erano propensi a mostrarsi, gli abitanti dell’isola molto meno. Il nostro è un cinema che non produce ricchezza, ma che ascolta il dolore del pianeta».

N. Klotz, E. Perceval
Le immagini sono in guerra contro di noi, con la propaganda e il marketing. Noi volevamo filmare come se fosse la prima voltaI film della competizione portoghese sono i favoriti dal pubblico, che riempie la grande sala Manoel De Oliveira del São Jorge. Il Portogallo guarda se stesso a Doclisboa (nel bene e nel male) titola il quotidiano «Publico», e la definizione è calzante se pensiamo a lavori come Fogo no lodo di Catarina Laranjeiro e Daniel Barroca. Girato nel villaggio di Unal, in Guinea-Bissau – luogo molto importante per la guerra d’indipendenza dai colonizzatori di Lisbona – il film si interroga su quel passato seguendo i giovani d’oggi, mostrando il loro stare insieme, la loro rabbia, la loro musica.

«A farewell chronicle» di Markku Lehmuskallio

UN ALTRO PEZZO di storia portoghese emerge poi nell’esperimento della regista Maria Mire, Clandestina. Il testo recitato dalla voce off è tratto dal libro di memorie della militante del partito comunista Margarida Tengarrinha della cui morte, avvenuta ieri, veniamo a conoscenza mentre scriviamo. Il film diviene quindi inevitabilmente un testamento, e del miglior genere, vista la sua intima spinta verso il futuro. Le parole descrivono la difficile vita di Tengarrinha in clandestinità negli anni ’50, quando insieme al suo compagno erano gli addetti alla falsificazione dei documenti per permettere gli spostamenti dei militanti oltre confine. Tengarrinha, che aveva una formazione artistica, applica tecniche e talenti allo scopo, ma le sue giornate sono ormai limitate a un appartamento, costretta a separarsi perfino dalla figlia quando raggiunge l’età scolare. Maria Mire decide quindi di restituire sullo schermo la vena artistica messa da parte da Tengarrinha, immaginando una sorta di resistenza clandestina al presente, dove non si falsificano passaporti ma si interviene sui chip, e dove la sovversione passa anche per opere digitali create da diversi artisti e artiste portoghesi del presente.

SI DICEVA della retrospettiva, quest’anno dedicata a Markku Lehmuskallio. Il regista finlandese, solo e insieme alla moglie Anastasia Lapsui, dalla fine degli anni ’80 ha dedicato la propria opera ai popoli indigeni del Nord, e in particolare ai Nenets della Siberia. Con loro ha trascorso lunghi periodi, vivendo nelle tende e mangiando pesce crudo, per cogliere lo stile di vita di questi abitanti dei margini. I Nenets vengono filmati negli anni ’90, all’indomani del disfacimento dell’Urss. In A farewell chronicle (1995) si evidenzia come i Nenets siano privati delle terre, appartenenti ad ex funzionari sovietici; terre preziose per lo sfruttamento del gas che, come sottolinea un governatore locale, soddisfa la domanda di tutta Europa. Se in un primo momento i russi avevano coinvolto i Nenets nell’industria, gli indigeni sono ora sempre più isolati e privi di sostentamento. Nella tundra battuta dal vento si scontrano codici e immaginari – la religiosità pagana degli indigeni da un lato, i rituali di matrice sovietica dall’altro. Un angolo di mondo lontano, dove nel freddo silenzioso si è consumata un’altra storia di colonialismo.