Il primo fine settimana è passato con la folla, la pioggia, le polemiche come quella «montata» intorno alla Palma d’onore a Alain Delon, una delle star d’eccellenza nazionali «accusato» in una petizione lanciata su un sito americano da una misteriosa Margherita B. di essere «razzista, misogino, omofobo» e come tale non degno di alcun premio. Frémaux, ancora prima che il Festival iniziasse, aveva risposto dicendo che il premio era per l’attore, e che non si trattava di un Nobel per la pace. E la carriera di Delon (che ha lavorato con Visconti, Klein, Antonioni ecc) contraddice per lunga parte la figura che ha poi costruito di sé, macho e amico di Jean Marie Le Pen; «Cosa fai? Faccio pietà» gli faceva dire Godard in Nouvelle Vague dissacrando quella sua aura con una frase appena, il contrario – e assai più irriverente – del circo mediatico montato intorno alla faccenda.
La Palma del concorso dove tra pochi giorni arriverà anche Marco Bellocchio con Il traditore, nei giudizi dei critici internazionali raccolti dalla rivista «Screen International» va per ora a Pedro Almodovar e al suo «romanzo di una giovinezza» Dolore e gloria – già da qualche giorno nelle nostre sale – per il quale sono in molti a dire che il protagonista, alter ego del regista spagnolo, Antonio Banderas, avrà il premio per il migliore attore. Ieri è stata la giornata dei fratelli Dardenne, più volte vincitori sulla Croisette, e del loro Le Jeune Ahmed – nelle sale francesi dal 22, in Italia distribuito da Bim. Il «giovane Ahmed» del titolo è un adolescente di oggi, in qualche parte del Belgio, un fratello, una sorella, la mamma rimasta da sola, il corpo goffo nell’incertezza dell’età, il viso nascosto dagli occhiali che porta sin da ragazzino.

IN NEMMENO un mese dalla play station è passato alla preghiera,via i manifesti dalla stanza, sguardi di odio alla sorella in canottiera, critiche pesanti alla madre, e alla maestra che lo segue da quando è piccolo e alla quale ora non vuole nemmeno più dare la mano per salutarla. È impuro dice. La colpa è dell’imam grida la madre, o del cugino morto «martire»che il religioso ha reso per il ragazzo un eroe e un modello da seguire. Anche il fratello va in moschea, ma preferisce a volte le partire di calcio, per Ahmed è invece «tutto o niente» e quando l’insegnante pure lei musulmana ma contro ogni integralismo inizia dei corsi di arabo moderno il ragazzo decide di ucciderla. Non era questo che l’imam gli ha chiesto quando l’aveva definita apostata?
Non c’è «cronaca»però in questa storia anche se in Belgio, dove vivono i due registi la materia è sensibile, lì è stato arrestato uno degli assassini del Bataclan, in quel quartiere di Molenbeek divenuto uno degli «archetipi» della radicalizzazione islamica nel Paese e in Europa. Il loro cinema non è mai stato esplicativo, nel corpo a corpo con la realtà preferisce interrogarla, mettendosi – e mettendo anche lo spettatore – in una posizione «scomoda», che non si appoggia sulle certezze, sul manicheismo tra buoni/cattivi, sulla ricerca di un’empatia coi loro personaggi – a differenza di quanto accade nei film di Ken Loach – ma predilige le sfumature, la zona dell’ambiguità in cui si dissolvono le rappresentazioni comuni.

INTORNO a Ahmed il paesaggio è anonimo, nessuno scorcio di periferie dure, nessuna motivazione «sociologica» della sua scelta: qualche traccia, forse, oltre l’irrequietezza adolescenziale l’assenza della figura paterna, l’imam con le sue prediche che fanno leva sui sentimenti fragili, rapido a dileguarsi dalle proprie responsabilità di fronte al gesto del ragazzo. «Quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura non avevamo ancora chiaro che avremmo dato vita a un personaggio così fermo nelle sue decisioni, che non ci offriva alcun appiglio per farlo uscire dalla sua follia omicida», dicono i Dardenne. Un’ossessione. È quella che avvolge i protagonisti dei loro film le cui azioni che li conducono a compiere errori tragici, ma anche a volte a riprendere in mano il loro destino, nascono da un intreccio tra spinte esterne e tensioni interiori inestricabile. La figura di Ahmed porta il loro «metodo» all’estremo, non offre appigli, è chiuso nel fantasma del martirio, rimprovera la madre di non essere una buona musulmana e nel centro di detenzione minorile in cui viene mandato dopo il tentato omicidio respinge le proposte degli educatori insieme alla loro buona volontà.

LA GENTILEZZA lo irrita, le categorie del mondo sono il puro e l’impuro, il resto non esiste. Come sottrarlo alla sua determinazione? Le crepe sono la spinta della sua età, la voglia di farsi prendere dalla vita nonostante tutto: un incontro, la ragazzina della fattoria in cui viene mandato a lavorare nel programma «rieducativo», la possibilità di qualcosa ancora da scoprire. Ma può bastare a rompere quel muro di fronte al quale, anche i due registi sembrano impotenti, che pone domande al loro metodo dialettico, e dunque anche la loro cinema?

IN QUESTA mancanza di comprensione c’è anche la forza del film, che segue una geometria netta ed essenziale nell’illuminare il nostro mondo, l’Europa, rispetto a un fenomeno come la radicalizzazione religiosa che appunto, le logiche utilizzate – società economia marginalizzazione – non sembrano, almeno secondo i Dardenne, essere sufficienti a comprendere limitandosi a offrire se la sicurezza di cui c’è bisogno per incasellarlo in qualche modo. Qui le certezze vengono meno e nel percorso «obbligato» del giovane Ahmed – accanto al quale nessuno può stare, è interessante la reazione nel pubblico che per lo più lo detesta – si impone un sentimento di impotenza.