Alle 17.30 di lunedì una delegazione del neonato Mpsr (Movimento patriottico per la salvezza e la restaurazione) si è presentata sugli schermi della televisione nazionale del Burkina Faso per annunciare di aver deposto il presidente in carica Roch Marc Christian Kaboré. Sospesa la costituzione e dissolto il parlamento, la giunta ha chiuso le frontiere del paese fino a nuovo ordine. Affiancato dai reparti fedeli della gendarmeria, lo stesso presidente Kaboré sarebbe sfuggito a un tentativo di assassinio, negoziando la propria vita.

Il golpe in Burkina Faso era solo una questione di tempo. Nel paese si parlava infatti apertamente del rischio di un putsch almeno da novembre scorso, quando la rabbia di esercito e opinione pubblica aveva raggiunto il proprio apice a seguito del massacro di Inata nel Nord Est del paese: combattenti affiliati ad al-Qaeda avevano attaccato un accampamento militare, uccidendo 53 soldati lasciati praticamente privi di vettovagliamento, armi e sostegno logistico. Un primo tentativo di colpo di stato era stato inoltre sventato solo poche settimane fa, l’8 gennaio.

Oltre a non essere una sorpresa, la presa di potere del tenente-colonnello Sandaogo Damiba, diplomato della Scuola militare di Parigi e promosso a capo del reggimento dell’esercito responsabile per la sicurezza della capitale Ouagadougou nel dicembre scorso, si inserisce all’interno di dinamiche nazionali e regionali più vaste, in cui la guerra contro i gruppi jihadisti condotta dai paesi europei nell’area ha avuto un peso centrale. Da un lato, il golpe interrompe sette anni di esercizio del potere da parte dei civili, in un paese che è stato governato da militari per più di quattro decenni.

Proprio Kaboré era giunto al potere a seguito delle proteste che nel 2014 erano riuscite ad abbattere la trentennale dittatura di Blaise Compaoré, il compagno d’armi che aveva tradito e ucciso Thomas Sankara nel 1987. Dopo essere stato nel 2015, tra quei giovani ufficiali che si erano opposti al tentativo dei fedeli di Compaoré di riprendersi il potere con le armi, Damiba si è fatto oggi esecutore della volontà di un esercito, cui Kaboré aveva provato a tagliare fondi e sottrarre potere, non fidandosi appieno delle proprie forze armate.

Dall’altro lato, quello in Burkina Faso è il quarto colpo di stato militare andato a buon fine nella regione del Sahel nel corso dell’ultimo anno, dopo Mali, Ciad e Guinea.

E proprio questo prepotente ritorno dei militari sulla scena politica regionale interroga direttamente le strategie perseguite nell’area dalla Francia e dai suoi alleati europei – Italia compresa – sempre più coinvolti sul terreno. Nel nome della guerra al terrorismo e del contenimento delle migrazioni transitanti da questa regione africana, nel corso degli ultimi dieci anni le potenze europee hanno favorito l’elaborazione di una soluzione principalmente, se non prettamente securitaria alla crisi del Sahel, militarizzandone le frontiere e puntando soprattutto sull’espansione delle capacità militari di regimi solitamente fragili e corrotti.

Uno schema così costruito ha finito in primo luogo col delegittimare profondamente anche quei regimi civili e almeno parzialmente democratici, come è il caso del Burkina di Kaboré, non direttamente accusabili di abusi nei confronti dei civili, ma incapaci comunque di ricostruire un patto sociale credibile con la propria popolazione. In secondo luogo, ha permesso il rafforzarsi di uno spirito di corpo e di una cultura di impunità all’interno di eserciti storicamente abituati ad esercitare direttamente il potere e a non riconoscere l’autorità civile.

Nonostante la pronta condanna da parte della comunità internazionale, e la richiesta giunta al Burkina Faso da Unione africana, Unione europea e Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao), di ristabilire prontamente l’ordine costituzionale e democratico nel paese, il contesto regionale sembra andare in tutt’altra direzione. In Mali in particolare, la giunta ha imbracciato una linea nazionalista che va alla prova di forza, disattendendo la roadmap concordata con la comunità internazionale dopo il golpe, con posticipo delle elezioni di 5 anni, apertura delle porte ai mercenari russi, revisione degli accordi militari con la Francia e disponibilità al dialogo con i jihadisti.

Democrazia, rispetto della costituzione e del controllo civile sui militari non sono più linee rosse che le potenze europee – combattute tra i timori di caos regionale e penetrazione di altri attori – sono in grado di far rispettare. A capitalizzare sul sentimento anti-francese e anti-occidentale sono soprattutto Russia e Turchia, che stanno affermando in maniera sempre più evidente la propria presenza nell’area saheliana.

Errata Corrige

Burkina Faso. Il quarto colpo di stato militare andato a buon fine nella regione nell’ultimo anno interroga direttamente le strategie prettamente securitariie perseguite nell’area dalla Francia e dai suoi alleati europei. Italia compresa