Ai funerali di Oleg Khorzhan, il 21 luglio scorso, doveva fare parecchio caldo. La cerimonia si è svolta molto rapidamente, senza musica né discorsi pubblici. Dopo nemmeno un’ora due uomini in jeans e maglietta hanno frettolosamente caricato la bara su un furgoncino bianco, e tutto si è concluso con un breve applauso. Tra i presenti, meno di duecento, spiccavano soprattutto gli assenti: nessun membro del governo, nessun politico locale. Ad accompagnare al camposanto il leader dell’opposizione della Transnistria c’era solo un piccolo gruppo di amici e famigliari, accorsi alla spicciolata con fare trepidante e nervoso.

OLEG KHORZHAN, 47 anni, è stato barbaramente assassinato nella sua casa di Sucleia, alla periferia di Tiraspol, la notte tra il 16 e il 17 luglio. L’uomo – secondo le ricostruzioni della polizia transnistriana – sarebbe stato colpito alla testa con un oggetto contundente, dopodiché i suoi aggressori lo avrebbero trascinato nella piccola stanza che fungeva da studiolo e lo avrebbero finito pugnalandolo sedici volte al collo e alla schiena. Il cadavere è stato rinvenuto alle 11 di mattina del 17 luglio dalla moglie di Khorzhan, che da qualche tempo si era trasferita in un’altra casa col figlio piccolo «per ragioni di sicurezza». La cassaforte dove Oleg conservava i documenti e il denaro era stata aperta e svuotata. Khorzhan dirigeva dal 2003 il partito comunista della Transnistria, ed era di gran lunga l’uomo più odiato dal gruppo di oligarchi che oggi regnano su Tiraspol.

LA PICCOLA repubblica non riconosciuta, al confine tra Moldavia e Ucraina, è letteralmente dominata da una holding monopolista, la Sheriff, il cui fatturato – pari a sei miliardi di dollari – equivale a più del cinquanta percento del Pil moldavo e sei volte quello dell’intera Transnistria. Ogni cosa, sulla riva sinistra del Dnestr, appartiene alla Sheriff: dalle aziende di telefonia agli ipermercati, dai distributori di benzina ai canali televisivi – per non parlare della potentissima squadra di calcio locale, lo Sheriff Tiraspol, che nel 2021 ha addirittura sconfitto il Real Madrid. Anche il presidente della repubblica, Vadim Krasnoselsky, è un uomo della Sheriff, e su 33 membri del parlamento locale ben 29 appartengono al suo partito (gli altri quattro, ufficialmente “indipendenti”, sono comunque legati a Krasnoselsky). Ovviamente la Sheriff gode di ottime relazioni con Mosca, che dal 1991 utilizza la Transnistria come avamposto strategico alle porte dell’Unione Europea. Oltre a un contingente di duemila soldati russi, nei dintorni di Tiraspol è infatti presente uno dei più grandi depositi di armi dell’ex Unione Sovietica – una santabarbara contenente 20mila tonnellate di materiale bellico, sita peraltro a una manciata di chilometri dal confine ucraino.

COSÌ, SPECIE dopo il 24 febbraio 2022, questa striscia di terra adagiata alle spalle di Odessa si è trasformata in un autentico Stato-fortezza, entro le cui frontiere il potere economico e quello politico-militare si sono fusi in un unico grumo, e i diritti umani hanno smesso di essere tali. È in questo contesto che Oleg Khorzhan portava avanti le sue solitarie battaglie. Dopo essersi candidato per due volte alla presidenza della repubblica, nel giugno 2018 era stato arrestato con la moglie e il figlio maggiore per aver organizzato una manifestazione di protesta contro il regime. Privato su due piedi dell’immunità parlamentare, aveva dovuto scontare quattro anni e mezzo di carcere.

QUANDO l’ho incontrato per una intervista, nel maggio scorso, Oleg era appena uscito di galera. Mi aveva accolto nella minuscola sede del partito, tra bandiere rosse e ritratti di Lenin: «Alle ultime elezioni – raccontava – i nostri governanti non hanno nemmeno avuto bisogno di comprare i voti. Tutti gli oppositori sono stati costretti a ritirarsi o lasciare il Paese, mentre io, che sarei stato il principale sfidante di Krasnoselsky, ero già in prigione da tre anni». In cella i suoi aguzzini gli avevano proposto un baratto: la libertà in cambio della rinuncia a ogni attività politica. «Sono questi i mezzucci che utilizzano – mi aveva confidato -. Ma la mia non è una guerra personale: io lotto per i diritti dei lavoratori della Transnistria, che oggi sono oppressi da questo padronato mafioso e senza scrupoli. E l’unico modo per fermarmi sarà farmi fuori».

Negli ultimi mesi Khorzhan stava raccogliendo informazioni sui nuovi intrallazzi della Sheriff e aveva appena siglato un patto d’alleanza col Partito di azione congiunta, un gruppo politico dell’estrema sinistra moldava – due iniziative che certamente hanno suscitato non pochi malumori ai piani alti di Tiraspol. Oggi, col suo assassinio, ogni prospettiva d’opposizione appare ormai archiviata – il che rende addirittura pleonastica la classica domanda che ci si pone in questi casi, “cui prodest?”.

ALL’INDOMANI dell’omicidio – essendosi forse reso conto che la somma degli elementi di cui sopra rischiava di inguaiarlo un po’ – il presidente Krasnoselsky ha annunciato che avrebbe diretto «in prima persona» le indagini di polizia. Ed effettivamente così è stato: la mattina stessa del 17 luglio le autorità della piccola repubblica-fantasma, escludendo a priori ogni genere di movente politico, hanno sentenziato che Oleg Khorzhan era stato ucciso in seguito a «una rapina finita male». Tre giorni dopo era già pronto il nome del presunto assassino: si tratta di tale Andrei Duminica, un trentenne transnistriano con diversi precedenti penali che era diventato amico di Khorzhan dietro le sbarre delle patrie galere e che lo avrebbe chiamato al telefono pochi minuti prima del fattaccio. Caso risolto? Neanche per sogno: Duminica- che sarà anche ladro ma di certo non è scemo – ha infatti subito diffuso via web un video del suo passaporto, dal quale si evince chiaramente che dal 18 maggio si trova in Unione europea.

RAGGIUNTO al cellulare da un giornalista investigativo moldavo, il giovane ha poi raccontato di aver cercato più volte – inutilmente – di mettersi in contatto con gli investigatori, i quali, pur di non parlare con lui, alla fine lo avrebbero addirittura bloccato. «È chiaro che non gli interessava nulla della verità, volevano solo utilizzarmi come capro espiatorio», ha dichiarato Duminica, il quale ora, giustamente, teme per la propria vita. Quando il giornalista moldavo ha chiamato Tiraspol per chiedere spiegazioni, gli è stato risposto che i dati sugli spostamenti del ragazzo non potevano essere divulgati «per via della privacy» – una premura che suscita quasi tenerezza, considerato che le stesse autorità di Tiraspol avevano appena dato in pasto le fotografie dell’«assassino» Duminica a tutte le tv della regione. Ma tant’è.

NEGLI SCORSI giorni siamo riusciti a metterci in contatto con alcuni membri della famiglia di Oleg Khorzhan, il cui unico obiettivo oggi è quello di ottenere giustizia. «L’ipotesi della rapina è certamente da escludere – ci ha detto uno di loro -. È chiaro che chi ha ucciso Oleg era interessato al contenuto della cassaforte, ma noi non crediamo che si trattasse di soldi. Ho visto con i miei occhi delle banconote abbandonate sul pavimento dello studiolo, accanto a un piccolo monile d’oro. Altri gioielli si trovavano nella stanza accanto, e anche quelli non sono stati toccati, così come è rimasta al suo posto una piccola somma di denaro che era conservata in una borsa da viaggio al piano di sotto».

QUALI DOCUMENTI aveva raccolto Khorzhan? E cosa li rendeva così preziosi da dover essere conservati sottochiave? Sono domande alle quali nemmeno la famiglia, per ora, sa dare una risposta. Quel che è certo, è che chi ha aggredito il leader dell’opposizione transnistriana lo ha fatto in modo premeditato, studiando attentamente ogni singola mossa. Per prima cosa – sempre a detta della famiglia – i killer avrebbero manomesso la batteria dell’automobile di Oleg, così da rendere impossibile ogni eventuale tentativo di fuga. Dopodiché si sarebbero nascosti in un angolo del giardino dove non erano presenti videocamere di sorveglianza, avrebbero atteso l’uscita di Khorzhan e lo avrebbero tramortito a tradimento coi primi colpi alla testa. «Siamo certi che Oleg non avrebbe mai aperto a nessuno in piena notte, fatta eccezione per noi famigliari e per qualche amico intimo – ci è stato detto -. Ultimamente non aveva ricevuto minacce, ma forse l’obiettivo dei suoi nemici era proprio quello di dargli un falso senso di sicurezza. Da tempo noi tutti gli ripetevamo che aveva bisogno di protezione. Lui però era fatto così: alzava le spalle e andava avanti per la sua strada». Chi ha ucciso il compagno Oleg Khorzhan? E per conto di quali mandanti? Il presidente Krasnoselsky ha già annunciato che continuerà le sue indagini – noi, nel nostro piccolo, faremo altrettanto.