Chi era Susan John, lasciata(si) morire di fame e di sete nel carcere delle Vallette a Torino, l’11 agosto? Chi era Azzurra Campari, morta suicida lo stesso giorno in una cella dello stesso carcere? A queste domande non sappiamo rispondere. Di loro sappiamo pochissimo, quasi nulla.

Susan, 42 anni, pare avesse una condanna definitiva a dieci anni per tratta di essere umani (un reato che a volte fa poche distinzioni tra vittima e carnefice), un fine pena al 2030 e una sofferenza indicibile per non poter vedere il figlio di tre anni. Azzurra aveva 28 anni, un pena di un anno per reati di piccolo cabotaggio commessi molto tempo addietro, un dolore gridato alla madre nell’ultima videochiamata: «Non ce la faccio più».

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Di loro possiamo solo dire di non sapere, ma c’è poco coraggio filosofico a ripetere la saggezza socratica. Semmai, c’è scoramento di fronte a un carcere che nonostante gli sforzi soggettivi di chi vi dedica vita e passione (la direttrice del carcere di Torino è senza dubbio tra questi), ancora dimostra di non essere oggettivamente in grado di conoscere le persone che prende in carico, di intercettare i loro bisogni e riempire i loro vuoti. Non c’è possibilità di reinserire, non c’è tensione alla rieducazione, se sai di non poter conoscere nulla di donne e uomini che ricevi negli spazi detentivi.

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Per questo il problema del carcere oggi, nonostante il sovraffollamento, non sono (solo) gli spazi. E neppure le circolari che consentono di etichettare i problemi: disagio psichiatrico, evento critico, autolesionismo e così via. Credo che abbia poco senso, ora, verificare se siano stati rispettati i protocolli o se sia possibile usare le caserme dismesse per farvi nuovi luoghi di detenzione con i vecchi problemi. Se si vuole dare senso alle morti di Susan e Azzurra – e di Graziana, che pochi giorni prima si era tolta la vita sempre a Torino – occorre ragionare in termini di persone, progetti, diritti.

Un carcere con una media di un funzionario giuridico-pedagogico ogni 71 detenuti, con picchi di un educatore ogni 379 (XIX rapporto Antigone) non può conoscere le persone, prenderle in carico con efficacia. Se a ciò si aggiunge il deserto di altre figure professionali (psichiatri, psicologi, mediatori) e il taglio dei ponti con la società esterna, si capisce che si ha necessità di persone e non di altri spazi in cui travasare un modello di pena basato sull’espropriazione di tutto e sulla restituzione di niente.

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Secondo punto: a dover cambiare è l’idea di carcere. È medievale che la detenzione, oltre alla libertà personale, sottragga ancora sempre e comunque (senza differenziazioni) affetti, relazioni, autonomia. Il penitenziario come luogo della segregazione alienante, almeno nei confronti di alcune categorie di detenuti, dovrebbe lasciare spazio, oltre che alle pene sostitutive e alle misure alternative, a un modo nuovo di housing detentivo. Bene hanno fatto la Società della ragione e la fondazione Michelucci, lo scorso 29 luglio, a ricordare Sandro Margara attraverso il rilancio della proposta di legge per l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale. Un progetto detentivo integrato nella città, dove gli spazi si possano riempire di relazioni e senso, non di disperazione.

Infine, i modelli cambiano lentamente, ma, intanto, occorre lanciare una battaglia culturale (anche dentro la magistratura) perché i diritti occupino sempre più il posto della premialità e del correzionalismo. È impensabile che una madre non possa avere risposte sul se e quando vedere suo figlio. Non è un tema di rieducazione, è un tema di vita. E la pena non può togliere la vita.