Caro manifesto,
a leggere la lettera inviata da Maysoon Majidi, detenuta nel carcere di Reggio Calabria, al Capo dello Stato viene in mente una parola: catastrofe. Così veniva chiamato l’evento che, in un’epoca e in un mondo non definiti, aveva sconvolto l’esistenza di quaranta donne. Rinchiuse in un sotterraneo, guardate a vista da tre guardie, le prigioniere avevano ormai smesso di domandarsi quale fosse la ragione di quella ingiusta detenzione. Poi, a un certo punto, una di loro – soprannominata la piccola – inizia a crescere, ad ascoltare il battito del cuore per scandire il tempo e, infine, a raccontare.

Il libro di Jacqueline Harpman, Io che non ho conosciuto gli uomini (Blackie Edizioni, 2024) è considerato un romanzo distopico ma suona brutalmente realistico nei mesi in cui Majidi prova a comprendere la ragione della sua reclusione. Lei, come Marjam Jamali, e come centinaia e centinaia di altre persone in Italia, sono oggi accusate di essere trafficanti di esseri umani. La frase ricorrente, ripetuta da Majidi a chi in questi mesi va a trovarla, è una: non capisco perché mi hanno rinchiusa. Che parole si possono usare per spiegare a una ragazza di ventotto anni, scappata dall’Iran perché perseguitata in quanto attivista e appartenente a una minoranza etnico-linguistica, che il paese che ti soccorre è, in realtà, il paese che ti accusa?

Che parole si possono usare per spiegarle l’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, che dopo il cosiddetto Decreto Cutro ha assunto contorni ancora più arbitrari? Quali parole per riuscire a spiegarle che i suoi presunti accusatori, due persone migranti che viaggiavano sul suo stesso barcone, sfiniti e terrorizzati dal viaggio, hanno rilasciato dichiarazioni utilizzate strumentalmente contro di lei? Quali parole per riuscire a spiegarle che, nel suo caso, per ottenere gli arresti domiciliari, non è sufficiente l’insussistenza del pericolo di fuga, di manipolazione delle prove e di reiterazione del reato? Che parole si possono usare per spiegarle che la direzione di un carcere le ha rifiutato la visita di una psicologa di fiducia perché aver perso 14 kg in pochi mesi, arrivare a pesarne 38, non riuscire a comunicare agevolmente con nessuno poiché in un paese straniero, sola e senza famiglia, tutto sommato, non l’ha resa in condizioni di assoluta necessità?

Sono capitati altri momenti nella storia in cui il carcere ha mostrato tutta la sua crudele inutilità e in questa torrida estate il dolore è talmente esasperato e trasversale che le storie come quelle di Majidi sono risucchiate da altre, in una sorta di spirale dell’orrore di cui non si vede la fine. Eppure, le parole che fuori faticano a essere pronunciate, le scrivono Majidi e Jamali, le scrivono le persone detenute nel carcere di Regina Coeli che raccontano di un uomo di 78 anni recluso con loro che ormai non ha più cognizione di sé e del luogo dove si trova, le scrivono le detenute del carcere di Venezia e i reclusi dell’istituto di Alessandria.

«Le rare volte in cui le donne si sono decise a raccontarmi alcuni episodi delle loro vite, evocavano avvenimenti, andate e ritorni, uomini: io invece sono ridotta a chiamare ricordo il sentimento di esistere in uno stesso luogo, con le stesse persone, facendo sempre le stesse cose, ossia mangiare, evacuare, dormire. Per parecchio tempo le giornate si sono svolte in modo simile, poi ho cominciato a pensare e tutto è cambiato. Prima non c’era altro che la ripetizione di gesti sempre uguali e il tempo sembrava immobile, anche se confusamente mi rendevo conto che io crescevo e lui passava. La mia memoria ha inizio con la rabbia». (J.H.)