Lo sciopero generale ha richiamato il governo, con forza e determinazione, a intervenire in maniera congrua e adeguata per contrastare la piaga delle delocalizzazioni. Una vera e propria piaga sociale che fa crescere la precarietà provocando un’emorragia di posti di lavoro.

Affermare, come ha fatto recentemente il ministro del Lavoro, che «bloccare le delocalizzazioni è impossibile, si può invece impedire che avvengano con un whatsapp» e ancora: «Non si tratta di impedire di chiudere o di spostare un’attività, questo è impossibile in un’economia di mercato», esprime una convinzione erronea e rinunciataria nella difesa dei diritti del lavoro. La gravità del fenomeno è dimostrata dalle cifre.

Nel 2020, nonostante la pandemia, lo stock d’investimenti all’estero dall’Italia ha raggiunto il 31,62% del Pil nazionale. Si tratta di cifre impressionanti che corrispondono a milioni di posti di lavoro potenziali.

In queste condizioni la difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori diventa molto difficile. Disoccupazione precarietà, sotto-remunerazione e marginalizzazione del lavoro continueranno inarrestabili finché peserà il ricatto della delocalizzazione produttiva.

Spostare investimenti e posti di lavoro è l’arma più potente che consente al capitalismo contemporaneo di esercitare una continua pressione al ribasso sulle condizioni del mercato internazionale del lavoro.

Ne consegue che, da un lato, la delocalizzazione non reca alcun vantaggio alle masse lavoratrici dei Paesi in cui si delocalizza, in quanto il basso o bassissimo costo della manodopera praticabile è la condizione primaria per attrarre investimenti dall’estero e perciò è mantenuta fermamente dai gruppi dominanti locali.

Dall’altro, costituisce l’arma più potente per taglieggiare i diritti duramente conquistati dai lavoratori dei Paesi di più antico sviluppo e di più consolidate tradizioni sindacali.

Quanto all’argomento, affatto pretestuoso, per cui combattere la delocalizzazione scoraggerebbe gli investimenti, non tiene conto di un dato di fondo.

Gli investimenti nei Paesi più sviluppati da parte di imprenditori locali o provenienti da Stati in posizioni parimenti dominanti nell’economia internazionale sono attratti da fattori di altra natura. Fattori che riguardano innanzitutto politiche d’innovazione tecnico-produttiva promosse e sostenute in primo luogo da iniziative statali, condizioni avanzate e premiali di infrastrutture e servizi, solidità ed efficienza dell’amministrazione pubblica, serie e affidabili politiche industriali.

E non meravigli che alcuni di questi requisiti siano da tempo tra le richieste di riforma dei sindacati. Lo sono perché negli ultimi decenni in Italia, come in altri paesi del capitalismo storico, la prevalenza di indirizzi neoliberisti ha favorito la ricerca del profitto per le vie più facili, contingenti e incuranti delle conseguenze sociali. Vie costituite, appunto, da delocalizzazione, automazione spinta e volta principalmente alla riduzione, intercambiabilità e precarizzazione della manodopera, nonché ricorso sempre più massiccio agli investimenti finanziari.

Lo sciopero generale non ha rappresentato solo una pur necessaria protesta contro il continuo scivolamento indietro delle condizioni di lavoro e di vita di gran parte dei cittadini. Ma ha avuto una valenza più generale in quanto sollecita politiche di progresso capaci di elevare la qualità sociale di tutta la comunità.

Difendere oggi i diritti del lavoro significa anche, e non secondariamente, difendere la sua insostituibile funzione di continua costruzione e ricostruzione dei rapporti sociali. Un’opera che non può essere, certo, svolta dal mercato e dalla sua logica meramente utilitaria, contingente, parziale e, perciò stesso, costitutivamente irresponsabile.