Se ne parla da luglio. Doveva essere un decreto e doveva intervenire sulle tante delocalizzazione annunciate appena sbloccati i licenziamenti: Gianetti ruote, Gkn, Timken, fino alle recenti Saga Caffè, Speedline, Caterpillar con multe salate fino al blocco delle procedure di licenziamento collettivo.

E INVECE CINQUE MESI DOPO il governo Draghi vara un semplice buffetto alle multinazionali che delocalizzano. Si tratta di un articolo all’interno del maxiemendamento alla legge di bilancio, finalmente depositato in Senato. Prevede un semplice raddoppio dei costi di licenziamento – se l’azienda non presenta il piano per la delocalizzazione o se nel piano mancano gli elementi previsti, come la gestione degli eventuali esuberi – e tempi di comunicazione e discussione più lunghi, fino a 90 giorni. Niente di più.

Ma tanto basta alla parte sinistra della maggioranza Draghi – Pd, M5s, Leu – per parlare di «successo» mentre il ministro leghista Giorgetti, sempre avverso, lo commenta assieme a una lunga serie di agevolazioni alle stesse multinazionali compreso il regalo di «un fondo speciale di 100 milioni di euro per favorire il prepensionamento dei lavoratori di aziende in crisi» o lo sconto sull’imposta di registro, ipotecaria e catastale per il trasferimento dei beni strumentali.

NEGLI ULTIMI GIORNI il pressing del ministro del Lavoro Andrea Orlando e della vicemnistra al Mise Alessandra Todde ha fatto vacillare perfino il consulente economico di palazzo Chigi, l’iperliberista Francesco Giavazzi, mentre il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha prima sbraitato lunedì e poi – valutando le conseguenze minime per le multinazionali – ha accettato il testo senza commentarlo.

UNICO ELEMENTO POSITIVO è il tempo di approvazione. Fra un decreto e un emendamento a una manovra blindata l’entrata in vigore è praticamente uguale.

Nel merito però si passa dalla multa fino al 2% del fatturato – pari a milioni di euro per una multinazionale – previsto dalla stesura di luglio della bozza di decreto Misure urgenti in materia di tutela dell’insediamento dell’attività produttiva e di salvaguardia del perimetro aziendale» messa a punto da Todde alle poche migliaia di euro -al massimo è 3300 euro a licenziato, calcola Stefano Fassina – previste ora. In più i tempi previsti vengono dimmezzati: nella bozza di decreto le aziende dovevano comunicare la decisione 6 mesi prima e per 3 mesi dovevano cercare un acquirente per la reindustrializzazione, particolare molto importante totalmente saltato nel testo dell’emendamento.

La procedura, in tre step, riguarda le imprese con più di 250 dipendenti, che ne vogliono licenziare almeno 50: una comunicazione va fatta tre mesi prima a sindacati, enti locali e ministeri, entro 60 giorni l’azienda deve presentare un piano che va discusso nei successivi 30 giorni. Il piano, di massimo 12 mesi, deve «limitare le ricadute occupazionali ed economiche», con ammortizzatori sociali, cessione o riconversione del sito.

«È una mera proceduralizzazione che mette in discussione il diritto per i lavoratori di difendersi attraverso le normative contrattuali e il ricorso alla magistratura (risultato fondamentale ad esempio nella vicenda Gkn, ndr) – commenta la segretaria genrerale della Fiom Francesca Re David – . Chiunque sta ai tavoli di crisi sa bene che non bastano certo 3 mesi per discutere sul mantenimento delle attività produttive in Italia e non bastano 12 mesi (che corrispondono all’attuale cassa integrazione per cessazione) per concludere una reindustrializzazione – prosegue – . Non c’è nessun ruolo attivo del governo e non c’è nessun vincolo alla responsabilità sociale dell’impresa sancita dalla nostra Costituzione».

IL MINISTRO ORLANDO parla di un piano per rendere il meno «traumatici» possibile gli esuberi e frenare l’aspetto più «brutale e selvaggio», andato in scena con i licenziamenti comunicati via Whatsapp o Telegram. Era «l’ultimo slot utile», afferma il ministro del Lavoro, prima che il quadro si faccia «più incerto».

È un «primo passo avanti importante», dice il segretario del Pd Enrico Letta. Lo stesso Orlando però parla della necessità di un intervento europeo e il vicesegretario Peppe Provenzano dice che «si deve riorganizzare il Mise». Giuseppe Conte, in una nota scritta con il viceministro Alessandra Todde, parla di un intervento «non punitivo».