E adesso? Adesso che Zohra non c’è più, dissolta, volata via, dispersa ai quattro angoli del mondo, che cosa possiamo fare? O anche, semplicemente, che cosa possiamo pensare? Questo nome-prisma, dai mille significati (alba, fiore, aurora, bellezza, Venere, dea della musica), dice poco o nulla, forse, dalle nostre parti. E invece nasconde una delle esperienze più «radicali» della storia recente. Della storia dell’Afghanistan, ma a ben pensarci della storia del mondo. Zohra è innanzitutto un’orchestra, nata a Kabul nel 2015.

Un’orchestra diversa da tutte le altre, però: perché i trenta musicisti che l’hanno fatta nascere, sono in realtà musiciste: donne, ragazze, giovanissime: tutte tra i tredici e i vent’anni. L’idea di un’orchestra femminile, che anche nel cosiddetto Occidente non ha mai avuto una gran fortuna, è stata per la verità di un uomo: Ahmad Sarmast, musicologo, attivista per i diritti umani, che nel 2010 ha fondato a Kabul l’Istituto Nazionale Musicale Afgano (ANIM, in sigla): una scuola che fino a pochi a pochi mesi ospitava, e metteva sulla strada della musica, 350 allievi: ragazzi e ragazze di strada, orfani e orfane, adolescenti senza distinzione di sesso, religione e censo. Ed è proprio dall’albero dell’Istituto che è spuntato, sei anni fa, il ramo fiorito di Zohra.

Un ramo cresciuto a velocità straordinaria: Zohra, approfittando delle moderate libertà di movimento concesse dal governo di Mohammad Ghani, esce dalle aule dell’Istituto, oltrepassa le frontiere del paese e fa ascoltare la propria voce in mezzo mondo: a Davos, durante il World Economic Forum, a Zurigo, alla Tonhalle, a Londra, a Oxford, in Australia, durante una lunga tournée che tocca Melbourne e Sydney. Mantenendo, costantemente, una identità sonora unica e irripetibile: le ragazze di Zohra, infatti, suonano sia gli strumenti della tradizione occidentale (gli archi, i legni, il pianoforte), sia alcuni strumenti che noi chiamiamo «etnici», ma che per loro non possiedono alcun aggettivo: il sitar, il rubab, le tabla, il sarani, la dhamboura e molti altri, ossia le voci usuali della musica tradizionale afgana. Ed eseguono abitualmente, e senza distinzioni di valore, tre repertori diversi: la musica scritta occidentale, la musica classica orientale e infine la musica popolare, non scritta, della tradizione locale.

Dal 15 agosto di quest’anno, da quando gli «studenti», i «figli di Dio», insomma quelli che noi chiamiamo talebani, hanno riconquistato Kabul tutto questo non esiste più. L’Istituto è stato chiuso, gli strumenti musicali distrutti (anche se un portavoce dei talebani ha negato la responsabilità del nuovo governo), ma soprattutto è iniziata la diaspora delle musiciste: prima della chiusura definitiva dei confini molte delle ragazze di Zohra sono riuscite a lasciare il paese: alcune sono riparate in Portogallo, altre a Doha: Negin Khpolwak, oggi appena ventenne, una delle due giovanissime direttrici dell’orchestra, probabilmente a New York. L’orchestra è smembrata, divisa: un’orchestra «diffusa» che suona soltanto nel pensiero e nel ricordo di queste ragazze che fino a pochi mesi fa condividevano il leggio, la vita, il presente.

E ora? Il loro futuro? Il passo più urgente da compiere – come ha affermato di recente lo stesso Sarmast – è quello di assicurare a queste ragazze, dovunque esse si trovino, la possibilità di continuare a studiare. I conservatori, le scuole di musica, le università dei paesi che le ospitano devono non solo accoglierle, ma offrire loro, gratuitamente, strumenti, aule di studio, per tenere viva la pratica della loro musica: quella classica e quella popolare. E poi occorre lavorare perché le vittime della diaspora si possano riunire. C’è una data da segnare in agenda, lontana, ma non remota: l’8 marzo 2023. Per quel giorno carico di simboli le musiciste dell’Orchestra Olimpia di Pesaro, un’orchestra femminile che lavora da tempo nel sociale, hanno invitato in Italia le loro sorelle afgane: un’idea, un’utopia concreta, che non devono, non possono morire