Resta poco chiara la situazione dei tre italiani rapiti lo scorso giovedì nel villaggio di Sincina, nel distretto di Koutiala (sud-est del Mali), vicino al confine con il Burkina Faso. Il Mali è teatro dal 2012 di attacchi compiuti da gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda, con il Gruppo di Sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), e allo Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs). Violenze e rapimenti che si sono estesi poi al vicino Burkina Faso e al Niger, causando migliaia di morti tra civili e militari e centinaia di migliaia di sfollati, nonostante il dispiegamento delle forze Onu, francesi, africane e recentemente di mercenari russi.

La Farnesina conferma l’identità dei rapiti. Si tratta di Rocco Antonio Langone, 64 anni, della moglie Maria Donata Caivano, 62 anni e del loro figlio Giovanni, 43 anni, tutti appartenenti ai Testimoni di Geova e rapiti insieme a un cittadino togolese. La famiglia italiana, residente in Lombardia nel Milanese, dove Rocco Antonio Langone si era trasferito una quarantina di anni fa, viveva in Mali da diversi anni e aveva acquisito anche un secondo cognome: Koulibaly.

L’unica conferma del ministero dell’Interno maliano riguarda la rivendicazione del gruppo della Katiba Macina, guidata da Ahmadou Koufa numero due del Gsim. Lo stesso gruppo ha rapito nell’aprile 2021 il giornalista francese Olivier Dubois a Gao (nord) e recentemente, lo scorso 13 marzo, era circolato sui social un video che mostrava Dubois che si chiedeva ai famigliari e al governo francese «il massimo sforzo per la sua liberazione».

L’ultimo rilascio da parte di ostaggi rapiti in Mali, sempre per mano dello Gsim, risale allo scorso ottobre 2021 con suor Gloria Cecilia Narvaez, rapita il 7 febbraio 2017 sempre nella regione di Koutiala. Stessa sorte per Luca Tacchetto e la sua compagna di viaggio, la canadese Edith Blais, liberati nel marzo 2020 in Mali dopo essere stati rapiti 15 mesi prima, nel dicembre 2018 in Burkina Faso, e per gli altri nostri due connazionali, Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, rilasciati insieme alla francese Sophie Pétronin e al politico maliano Soumaila Cissé nell’ottobre 2020.

Il Gruppo di Sostegno all’islam e ai musulmani utilizza spesso l’arma dei sequestri come «strumento di autofinanziamento», al contrario dello Stato Islamico del Gran Sahara (Eigs) che normalmente non sequestra ostaggi stranieri e che già in passato, il 27 aprile 2021, aveva ucciso in un’incursione in Burkina Faso due spagnoli e un irlandese.

Il sequestro avviene in un momento in cui il Mali vive un periodo di relativo isolamento e di rapporti tesi con numerosi paesi occidentali, Francia in primis. Il governo di Bamako ha appena deciso di «abbandonare la forza anti-jihadista del G-5 Sahel (formata insieme a Mauritania, Burkina Faso, Niger e Ciad, ndr) a causa delle ingerenze francesi». E accusa Parigi di «concreto coinvolgimento» nel tentato golpe della scorsa settimana.

Altrettanto tesi sembrano i rapporti tra il governo maliano e la comunità internazionale. In un comunicato ufficiale di venerdì il Consiglio di Sicurezza ha «deplorato la decisione del Mali di abbandonare il G-5 Sahel» e ha espresso forti perplessità sul divieto imposto da Bamako ai caschi blu della Minusma di «potersi schierare o muovere in alcune zone del paese».

La missione Onu chiede invano, dallo scorso aprile, l’accesso al villaggio di Moura per indagare sulle accuse di esecuzioni di diverse centinaia di civili da parte dell’esercito maliano e, secondo molti testimoni, combattenti russi.

Da metà gennaio, dopo l’arrivo dei mercenari russi della compagnia Wagner, è stata imposta anche una vasta no-fly zone nel centro del paese in tutta la regione di Mopti. Queste restrizioni preoccupano la Minusma, che da gennaio ha registrato «una ventina di casi di violenze su civili», con un elenco che verrà comunicato al segretario generale Onu, Antonio Guterres, prima dell’esame del rinnovo del mandato di Minusma, il prossimo mese.