Dal carcere per «sodomia» al governo: Anwar Ibrahim il riformista non fa più paura
Malasya Processi-farsa per 23 anni prima della rivincita: è il nuovo primo ministro della «tigre». La sua visione: un islam liberale e democratico che sia modello di giustizia sociale
Malasya Processi-farsa per 23 anni prima della rivincita: è il nuovo primo ministro della «tigre». La sua visione: un islam liberale e democratico che sia modello di giustizia sociale
Le turbolenze politiche post elettorali della Malaysia non meriterebbero forse un particolare approfondimento se il vincitore finale della partita, Anwar Ibrahim, non fosse un personaggio davvero particolare. Che, da tre decenni, ha alternato il potere alla prigione riuscendo sempre a riemergere nel panorama politico locale mettendosi alla testa di movimenti progressisti.
Islamista modernista, intellettuale raffinato, parlamentare già vicepremier e più volte ministro, Anwar Ibrahim, classe 1947, fu accusato nel 1999 e incarcerato per sodomia, «reato» ancor più grave – da cui è stato assolto uscendo di galera nel 2004 – in un Paese governato dalla morale islamica e dove la sua supposta «devianza» fu un evidente grimaldello politico per rimuoverlo dalle stanze del potere: le sue riforme avrebbero messo in difficoltà un’economia che non ne voleva certo sapere di finanza islamica dove gli istituti di credito – nella testa di Anwar – dovevano funzionare da volano popolare e non da generatori di profitto per le banche stesse.
ERA TANTO SCOMODO che nel 2015 un secondo processo per sodomia lo vide di nuovo dietro le sbarre, cosa che non gli impedì di correre alle elezioni 2018 (dal carcere) e di vincerle, mossa che gli consentì di ottenere il perdono reale per uscire definitivamente di galera.
Ma andiamo con ordine. Anwar è da ieri il nuovo primo ministro della Malaysia, la federazione del Sudest asiatico conosciuta in passato come «tigre» di un boom economico senza precedenti nonché per la capacità non scontata di essere un Paese multietnico (malesi, cinesi, indiani, indigeni) che è sempre riuscito, benché su una fragile faglia, a mantenere un certo equilibrio tra nazionalismo malese, radicalismo islamico e scontento delle minoranze.
Nelle ultime elezioni, dopo un avvicendarsi di «governi del re», repentini cambi della guardia, bizzarre alchimie nelle coalizioni, è stato il sultano, cui la Carta di questa monarchia costituzionale dà diritto all’ultima parola, a scegliere il primo ministro. E ha scelto Anwar Ibrahim.
La cronaca recente racconta che la coalizione Pakatan Harapan (PH) guidata da Anwar vince 82 seggi ma gliene mancano 30 per ottenere la maggioranza di 112 in parlamento. La coalizione conservatrice Perikatan Nasional (PN), guidata dall’ex primo ministro Muhyiddin Yassin, ne ottiene 73. Entrambi reclamano la presidenza del governo e segue una situazione di stallo.
IN PARLAMENTO c’è dunque da corteggiare sia la coalizione Barisan Nasional (BN), che ha dominato la scena politica malaysiana fino al 2018 ma ha raggranellato solo 30 seggi, sia altri che vanno da uno a 23 scranni. Scampoli per fare la differenza.
Lo stallo viene risolto dal sultano Abdullah, un re a «rotazione» con altri del suo rango, cui spetta il titolo di Yang di-Pertuan Agong. Incontra sia Muhyiddin sia Anwar e propone un governo di unità nazionale ma il primo rifiuta. Altro giro col Barisan Nasional e gli altri partiti. Alla fine della verifica nomina Anwar.
Il suo passato «sodomitico» è ora alle spalle e così una vicenda piena di lati oscuri, menzogne, propaganda e un processo criticato aspramente per le trame politiche di corridoio. Ma la Malaysia è anche un Paese di paradossi: l’artefice della prigionia di Anwar è sempre stato visto nel suo ex mentore Mahathir Mohamad, uno dei leader più inossidabili della Storia.
IL VECCHIO BURATTINAIO malese (classe 1925), che ha appena ricevuto una batosta alle ultime elezioni in cui non è stato eletto, ha accumulato oltre settant’anni di attività politica di cui 24 come premier (da luglio 1981a ottobre 2003 e da maggio 2018 a marzo 2020) il che ne fa uno dei più longevi primi ministri del mondo.
È lui che dà ad Anwar la possibilità di emergere. Ma quando il rampollo emerge troppo gli tarpa le ali. La popolarità di Anwar però cresce anche quando è in galera. Le voci su una possibile montatura, l’attivismo di sua moglie Azizah, la sua vocazione riformista e la scelta di fare della Malaysia un Paese sempre più inclusivo gli fanno guadagnare consensi.
La sua visione è quella di un islam democratico e liberale che possa essere modello di giustizia sociale basato sui bisogni e non sull’appartenenza etnica in un Paese dove i malesi (bumiputra) sono sempre stati favoriti. Un altro paradosso? Nel 2018, mentre Anwar era in cella, fu Mahathir, dopo un accordo, a guidare la sua Pakatan Harapan alla vittoria. Ora però la scena è tutta per lui.
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