Cuba è entrata in quel mondo della Rete che fino al 2020 veniva soltanto agognato connettendosi attraverso schedine ricaricabili in luoghi istituzionalizzati, uno tra essi il parco Coppelia al Vedado, reso celebre dal film di Gutiérrez Alea Fragole e Cioccolato o nelle hall dell’Hotel Inglaterra, vicino al Teatro Alicia Alonso.

La Rete è una nuova piattaforma di socialità dove si reinventano le figure di quei socios e amigas che servono a resolver di fronte a una condizione di escasez (scarsezza) sempre più drammatica.

Alla lenta ripresa del turismo dopo la pandemia si è aggiunta nel 2022 una serie di catastrofi. All’incendio che in primavera scorsa ha bruciato l’Hotel Saratoga, simbolo del decoro della capitale, ha fatto seguito la recrudescenza estiva della dengue, la febbre da zanzare, e in luglio l’incendio che ha devastato Matanzas; poi lo scorso ottobre l’uragano Ian ha colpito la regione di Pinar del Rio rovinando i raccolti di tabacco e sommergendo di acque il Malecón, quel muro sul lungomare dell’Avana da dove si guarda e si pratica l’idea dell’orizzonte.

Ragazze e Internet sui cellulari a L’Avana, foto Afp via Getty Images

Lunghi apagones della corrente hanno paralizzato i cittadini al buio e bloccato i processi di fabbricazione, conservazione e cottura con la conseguenza di aumentare la scarsezza di prodotti alimentari di prima necessità fino a prima del Covid-19 forniti alla popolazione attraverso la libreta de abstecimiento (la tessera di razionamento). Non solo non si trovano le uova e il pollo, la carne in teoria garantita dalla libreta, ma anche il pane negli ultimi mesi non è disponibile tutti i giorni.

Come dice Eusebia, che gestisce una casa particular nel Cerro all’Avana dove attualmente scarseggiano i clienti, le code si sono trasformate in una pratica del tempo.

Nell’ontologia dell’escasez che logora Cuba “las colas nunca se acaban”: «Le code non finiscono mai, mangiare a Cuba è molto difficile amica mia, molto ma molto difficile, le code non finiscono, si va alle mani, le persone si innervosiscono perfino per un pacchetto di perros calientes (versione locale dei wurstel), le sigarette ormai si trovano solo ogni tanto, c’è chi fa le code la notte per poter trovare le cose, ma le code mai finiscono».

Nonostante l’efficienza del sistema di salute pubblica gratuito, del vaccino Soberana e della gestione del Covid-19, il sentimento di oppressione aumenta. Molti, circa 200mila, lasciano Cuba.

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Dopo aver lavorato come antropologa sul tema della bellezza e della mulatez, concentrandomi sui significati delle pratiche estetiche di donne che si autodefiniscono nere e mulatte all’Avana, continuo a studiare l’isola a distanza.

Una fila a L’Avana, foto Afp via Getty Images

Faccio ricerca a Roma dove incontro donne cubane-romane in un campo più sgombro dalle retoriche che sessualizzano Cuba come isola paradiso popolata da mulatte sensuali che offrono il loro “zucchero”.

In Italia, mi vien raccontato, forse ci si sente meno “belle”. Si è lontane da quegli habitus estetici che, a partire dall’epoca della colonia e del suo sistema di forze, hanno costruito “la mulatta” come vistosa irruzione sociale della bellezza e una possibilità sovversiva dell’ordine sociale dominante bianco e maschile; un ordine la cui purezza del sangue e la cui stabilità rischiano di essere minati dall’unione con una donna pericolosa perché fuori-casta, simbolo dell’allontanamento dalla schiavitù e espressione di un ethos liberale.

Le pratiche estetiche raccontano la storia della colonia, le negoziazioni della soggettività con le norme della bianchezza e una colonialità perdurante iscritta in tecniche violente.

Un murale a L’Avana, foto Frédéric Soltan/Corbis via Getty Images

Come quella classica del peine caliente, il pettine caldo arroventato sul fuoco, usato per stirare i capelli crespi proteggendosi con le dita le orecchie e per assomigliare al canone dominante della bellezza bianca.

O la più recente tecnica del desriz, un lisciante che in mancanza di versioni commerciali viene prodotto in casa mischiando soda caustica, olio, magari uovo, che danneggia i capelli e può portare alla loro caduta.

Argomento centrale di conversazione con le mie interlocutrici a Cuba e a Roma è la pasa: un cubanismo che significa “uva secca” e reifica la nerezza come bruttezza, semantizzando i capelli delle afrodiscendenti nei termini dello sguardo inferiorizzante bianco.

Da qui il tempo dedicato alla bellezza giocando il gioco dell’apparenza per attivar la mobilità nel sistema di forze schiavista. Nella società rivoluzionaria proprio il senso del gioco permette la riappropriazione positiva dello stigma della pasa. Oggi si può venire chiamata affettuosamente pasa indipendentemente dalla qualità dei capelli e dal fatto di avere o no un tipo crespo.

La pasa è rivendicata dalla voce forte di un femminismo nero che afferma il ruolo attivo degli schiavi nella formazione dell’Atlantico nero in versi sul pelo (i capelli) come quelli di Nancy Morejón in Carbones Silvestres: «Mi copri e sei mio e perché mi hanno insegnato a odiarti sei più mio […] Sei tu l’indomabile e non sappiamo dove ti dirigi. Quale sarà la tua vera direzione?».

Boxer cubane si allenano a L’Avana per il primo match femminile ufficiale, foto Afp via Getty Images

L’irruzione della bellezza come forza sociale trasformativa, tattica per darsi esistenza sulla quale rifletteva bell hooks nel suo saggio sull’estetica della nerezza afroamericana, si rivela inoltre in unghie smaltate impeccabili in situazioni precarie o nella pratica del menear, l’ancheggiare nel ballo e in un certo modo di camminare.

Parlo con Zuleida del menear, un’educazione trasmessa oralmente tra donne la cui acquisizione segna il passaggio all’età adulta.

Mentre mi viene spiegata questa “tecnica del corpo”, nei termini di Marcel Mauss, un “atto tradizionale efficace”, segno della possibilità di sedurre, la situazione dell’escasez viene così riassunta: «Qui a Roma meneo di meno, non si fa. A Cuba è un’altra cosa. Però ora se manca il pollo, con le file, se non corri… non c’è tempo neanche per chiacchierare! Metti che c’è una che va così tutta sciolta per le strade di Cuba e le dicono “Corri! È arrivato il pane!” Quella corre, se lo scorda il meneo!!».

Il dettaglio della crisi del meneo, del tempo lento dell’andatura femminile segnala un mutamento profondo legato a nuove disuguaglianze e alla ricerca di beni primari in un mercato reso competitivo dalla recente riorganizzazione interna del sistema monetario.

La costruzione culturale della grazia e della sensualità che decade nell’affannata corsa per la pagnotta condensa la sofferenza strutturale prodotta da più di sessant’anni di bloqueo e dall’attuale crisi economica interna.

In questo assetto viene meno l’insularità intesa da Eduard Glissant come una poetica della Relazione “secondo la quale ogni identità si estende in un rapporto con l’Altro”, un pensiero resistente a verità univoche, argomenti della cultura dell’Uno”, un’“archipe-logica”. Si sperimenta un altro lato di quel pensiero di identità radicale che è l’insularità: un’opposizione dell’isola come frammento alla totalità dei continenti, un sentimento di isolamento, di vita in lontananza da altro, legata alla mancanza dei consumi.

Quest’esperienza della vita è riassunta oggi da quel linguismo estremamente preciso che è la escasez. La scarsezza, condizione di un qualcosa che non c’è ma che in parte c’è e che alimenta il continuo e contradditorio desiderio di un’ulteriore disponibilità ma anche del sentimento di potere malgrado tutto, continuarne a sopportare l’assenza.

* Elena Zapponi, antropologa, si occupa di colonialità, genere e produzioni culturali ed estetiche. Il suo ultimo libro è Mulier Ludens. Bellezza e immagini della mulatta cubana (Meltemi, 2022)