Dopo l’intervento del 2012, a Otranto, sul relitto della motovedetta albanese Katër i Radës, ovvero L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante, l’artista greco Costas Varotsos è tornato a Lecce nel Museo Castromediano trasformando il museo più antico della Puglia in un nuovo e suggestivo spazio visivo ed emotivo, molto contemporaneo eppure dialogante con l’identità e la storia del luogo.

«Le opere di Varostos – ha dichiarato Fabio De Chirico, direttore Servizio Arte contemporanea del Ministero della Cultura intervenuto alla cerimonia inaugurale – diventano da oggi icone di questo museo e del territorio» a suggello dell’innovativo percorso intrapreso dal direttore Luigi De Luca che insieme a Giusi Giaracuni hanno curato la mostra di Varotsos Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa visitabile sino al 12 gennaio 2025.

Nove le opere dai titoli tutti emblematici: Elpìs, la lancia rossa alta 18 metri installata all’ingresso esterno del museo, simbolo di unione tra cielo e terra, sfida della speranza di una umanità persa e disperata, quella stessa umanità di cui si fa paladino e portavoce il corpo di Prometeo creato con centinaia, forse migliaia, lastre di vetro che brillano come le stelle, collocato nel giardino del Museo. E poi Europa, definita ‘la nuova Guernica’, Globo, La verità è sempre un’altra, Labirinto, Venere nera, Dialogo e Soffi.

«Prometeo», foto di Raffaele Puce

Di grande interesse anche gli eventi collaterali alla mostra come l’omaggio del festival Classiche Forme di Beatrice Rana in «Notturno con Dvorak» e la performance di teatro e danza «Promethean Chain /Anamnesis» della coreografa greca Apostolia Papadamaki con 100 performer prevista il 7 e 8 dicembre
Incontriamo Costas Varotsos.

Hai studiato a Roma negli anni Settanta. Quali ambienti frequentavi? Che anni sono stati?
Partecipavo ai movimenti studenteschi, erano tempi di vita dura ma interessanti dal punto di vista artistico. Gli anni dell’Arte Povera con grandi artisti come Merz, Boetti, Pistoletto, Calzolari, Kounellis, Paolini, dopo siamo diventati amici. Negli anni Settanta vivevamo un momento di esasperazione, la crisi del petrolio e l’austerity avevano creato paura in Europa, si parlava di fine della rivoluzione industriale e della civiltà contemporanea, di fine dell’esistenza dell’uomo, di crisi esistenziale e si parlava anche di morte dell’arte. L’Arte Povera arrivava come un’ancora di salvataggio, è stato il momento di massima concettualizzazione dell’arte, ci spingeva a riflettere sulla necessità di ricominciare da capo, di guardare ad esempio alla natura come archetipo. L’ Arte Povera e la transavanguardia hanno messo le fondamenta per un nuovo inizio.

L’Europa e il mito di Prometeo sono i due pilastri tematici su cui si basa la mostra di Lecce….
Stiamo vivendo l’implosione dell’Europa e questo succede per vari motivi. La logica dell’obiettivamente giusto e del politically correct è arrivata al limite massimo di sopportabilità. L’idea dell’unione culturale dell’Europa basata sui valori oggi non esiste più. Tutto è diventato economia, non l’economia reale ma quella concettuale, l’economia che parla di se stessa, che fa economia dell’economia, l’economia virtuale. È ciò che ha creato forze centrifughe e portato al crollo della Grecia e alla Brexit, che ha portato allo sbaraglio il Portogallo. Il politically correct ha creato fascismo, è diventato uno strumento di potere dei più ricchi per poterlo negare ai più poveri.

Perché un artista come te avverte l’urgenza di affrontare questo tema?
Economia e politica fanno parte della cultura, fanno parte dell’esistenza. L’arte non è una cosa separata dalla politica e dall’economia e soprattutto dalla vita. È pensiero critico nel momento reale, di adesso, decodifica il tempo presente. Obiettivo dell’arte è sentire questo momento presente e cercare di unirsi al mondo reale non al tempo passato o al tempo futuro. L’arte diventa universale nella misura in cui riesce a unirsi col mondo reale. È difficile poter capire questo momento storico perché nel tempo reale del presente la verità è sempre un’altra, come recita la mia opera del 1980.

Cosa racconta il tuo Prometeo nel tempo presente?
In ogni epoca Prometeo è stato visto come colui che arriva per salvare gli uomini da situazioni complicate, estreme. Ora siamo in questa stessa situazione, sembra che nessuno possa gestire i nodi politici economici esistenziali del momento. Guardiamo in alto e aspettiamo che qualcuno scenda. Ci sentiamo tutti incapaci e andiamo a cozzare contro una montagna di ghiaccio, un iceberg e nessuno riesce a far girare il timone, a invertire la rotta. Gli uomini vivono questo momento particolare, rischiano di perdere la possibilità di scelta e quando perdono questa possibilità perdono la loro esistenza, ci sentiamo di nuovo in un momento di non esistenza, di non possibilità di esistere, per esempio con la intelligenza artificiale. Prometeo ci viene in soccorso.

Varotsos a lavoro con un collaboratore

Camus scriveva ne «Il mito di Sisifo» che ‘una rivoluzione si compie sempre contro gli dei, cominciando da quella di Prometeo, il primo dei conquistatori moderni. Si tratta di una rivendicazione dell’uomo contro il destino’
Sì, anche per me il mito è qualcosa di rivoluzionario. Con il mio Prometeo ho voluto dare importanza all’uomo perché tutto gira attorno all’uomo, come intelligenza umana, come intelletto, come uomo creatore e inventore. Orwell nei Settanta ci sembrava uno scherzo, una cosa esagerata eppure abbiamo superato ogni limite. Il mio Prometeo di vetro sembra esplosivo, dominante ma anche sofferente, il fegato mangiato dalle aquile è qui attaccato dalle lame di vetro e lui deve liberarsi dalle catene. Rappresenta l’uomo e il valore incredibile dell’esistenza umana.

Il vetro è diventato la tua materia prima artistica. Perchè?
Il vetro è un minerale, è sabbia, la sua caratteristica è quella di far passare la luce e così diventa contenitore di spazio. Negli anni Settanta cercavo di equilibrare lo spazio e il tempo perché con la rivoluzione industriale abbiamo avuto un disequilibrio tra spazio e tempo, il tempo ha cominciato a gonfiarsi, dilatarsi, era diventato temporalizzazione dello spazio. Cercavo quindi il modo di dare importanza allo spazio e ho cominciato a usare materiali trasparenti che sono già nello spazio. Avendo il vetro in mano e lavorandolo ho capito che diventava un container di spazio; quando mettevo un vetro sopra l’altro diventava invece stratificazione del tempo, il tempo si esprimeva con le stratificazioni del vetro, uno sopra l’altro e così le mie opere diventavano strutture spazio temporali equilibrate.

Ti piace il vetro e ti piace lo spazio, soprattutto lo spazio pubblico…
Mi piace soprattutto lavorare in situ, per me è importante la relazione con la gente, con il territorio, cerco di far nascere l’opera dallo spazio. Ogni volta che guardo lo spazio, aspetto che lo spazio mi dia e mi dica qualcosa. È lo spazio che mi deve dare l’opera. Non colloco l’opera con la mia problematica nello spazio come faceva Calder, lui arrivava, piantava strutture di ferro alte 20 metri, non si guardava intorno, non gliene fregava niente di cosa succedeva intorno. A me non piace l’autoreferenzialità, l’arte moderna ha pagato cara l’autoreferenzialità, io devo rispettare lo spazio e le persone. Qui a Lecce ogni volta che entravo nel Museo vedevo un sacco di sorrisi attorno a me, loro mi hanno aiutato a far nascere la scultura. Un gruppo di abitanti con il direttore del Museo Luigi de Luca ha voluto questa opera, hanno deciso che questa è una opera d’arte, sarà così per un certo periodo di tempo, poi forse cambieranno idea e questa non sarà più una opera d’arte. Lavoro a livello sintetico, non analitico.

Nel teatro di Epidauro insieme al regista Stavros Tsakiris avete lavorato per «Prometheus Bound». Avevi già lavorato per «Antigone». Com’ è stata la tua esperienza in teatro?
Il teatro è una esperienza collettiva con tante persone che esprimono opinioni diverse, sempre a voce alta, a me viene ogni volta il mal di testa. Però a Epidauro è sempre una esperienza meravigliosa, quando diecimila persone ti applaudono ti vengono i brividi, non si può raccontare l’energia speciale che circola. In Antigone c’è lo scontro tra la morale e il potere e quello scontro esiste ancora adesso come esiste ancora la necessità del mito perché i valori e le funzioni basilari dell’uomo esistono nel suo Dna da migliaia di anni. Per fortuna la struttura base dell’uomo non è cambiata anche se negli anni Ottanta si parlava di meta-uomo. I valori base dei greci poggiano sulla decodificazione della cultura, il pensiero greco decodificava la cultura, l’essenza umana. In ogni epoca serve il pensiero greco perché ci permette di mettere a punto il motore. E mettere a punto il motore è azione rivoluzionaria.

Hai anche realizzato un’opera che si chiama «Teatro Greco»…
Nel Parco Archeologico di Cuma, nel tempio della Sibilla Cumana, avevo appoggiato il vetro sopra il tetto scoperto della cripta romana, ho preso la forma del teatro greco, l’ho chiuso avvolgendolo come un cono rovesciato ed è venuto fuori il teatro che porta la luce, forse è stato quello il mio primo Prometeo, era il 1999. Sì, il teatro porta la luce!