Che cosa resta oggi della rivoluzione sessantottina? Cosa è sopravvissuto di quegli «antichi» ideali e cosa si è tramandato alle nuove generazioni in termini di impegno politico? E che fine ha fatto la scintilla che accompagnava quell’insopprimibile desiderio di cambiare il mondo che ancora anima un mito apparentemente senza tempo?

QUESTIONI di sostanza, affrontate con garbo e leggerezza e una certa naïveté, nell’esordio cinematografico di Judith Davis Cosa resta della rivoluzione, realizzato dai produttori de Il giovane Karl Marx, la Agat Films & Cie del sempre impegnato Robert Guediguian. L’attrice francese (qualche anno fa nel cast di Viva la libertà di Roberto Andò) qui passata dietro la macchina da presa pur conservando per sé il ruolo della protagonista, interpreta i dubbi, la rabbia e lo spaesamento della giovane Angèle: urbanista idealista a Parigi, etichettata come tanti coetanei all’interno della «generazione Prozac», sottopagata, sfruttata e sbeffeggiata per la sola colpa di essere «nata troppo tardi».

Angèle vive il suo presente: il lavoro è diventato così «flessibile» che a farne le spese sono sempre i giovani, i precari, mentre la generazione dei padri, a parole ancora strenui sostenitori del marxismo, mantiene uno status di privilegio che evidenzia, implacabile, le molte contraddizioni della cosiddetta gauche caviar. Le relazioni non le interessano. Ha imparato che l’amore e la famiglia sono valori borghesi spesso di intralcio a chi è intenzionato a sposare ideali rivoluzionari.

Ma è anche intrappolata nel suo passato, in un vissuto familiare che fatica a elaborare. Il padre è un signore eccentrico che ancora professa la fede maoista, la madre, anche lei sessantottina pasionaria, li ha abbandonati molti anni prima, insofferente alla vita domestica o forse semplicemente stanca di un marito che non amava più. Anche il confronto con la sorella e il cognato, evidentemente «venduti al sistema», sottomessi alle leggi del marketing (la casetta, il suv, le feste di compleanno in giardino…) si fanno ogni giorno più tesi.

TORNATA a vivere dal padre dopo aver perso il lavoro, Angèle prova a opporsi al tramonto della politica nell’era dell’anti-politica, del populismo e del disimpegno formando un piccolo collettivo civico di morettiana memoria, anche nel suo autoironico anacronismo. Proprio come avviene alla sua protagonista, Cosa resta della rivoluzione fa quindi i conti tra passato e presente, evidentemente alla ricerca di un compromesso tra dimensione pubblica e privata, impegno politico e affetti. Alternando i toni della commedia al melodramma familiare, con un andamento a tratti teatrale (l’idea per il film nasce infatti da uno spettacolo teatrale, pur non essendone un adattamento), Judith Davis avanza una considerazione amarissima, anche se timida, sullo stato di crisi della sinistra europea, divisa, incerta, in evidente difficoltà a cominciare dal suo linguaggio, incapace di trovare le parole, figuriamoci se in grado di riunire le folle attorno a un qualsiasi ideale.

IN UN TEMPO in cui si è incapaci di ritrovare l’unità anche di fronte a temi fondamentali (il lavoro, le risorse naturali come bene comune, l’istruzione gratuita…) che improvvisamente appaiono come ridicole ingenuità, Cosa resta della rivoluzione evidenzia lo stato d’animo di un’intera generazione, annientata, impossibilitata a reagire dopo che l’intero tessuto sociale è stato fatto a brandelli, i diritti sono diventati privilegi e l’individualismo più selvaggio ha preso il sopravvento. Il rifugio nell’unico bene ancora possibile, la famiglia, l’amore, è anche la presa di coscienza del crollo definitivo di un principio di collettività diventato utopia.