Sono serviti quasi otto anni per completare Endless. E ora che è terminato il film sta iniziando il suo percorso nei festival. Quei festival che hanno la mente aperta e lo sguardo attento alle sperimentazioni formali. Come il New Horizons International Film Festival di Wroclaw (magnifica città polacca dove hanno sede alcune delle più prestigiose università del Paese) la cui ventiquattresima edizione si è svolta dal 18 al 28 luglio.
Endless, secondo lungometraggio di Wojciech Puś, filmmaker e artista multimediale polacco, non era in concorso, ma è stato uno dei titoli più appassionanti proposti dal ricco cartellone. Definito dal regista «il nostro film», per la stretta complicità con chi lo interpreta, Endless è un’opera sulla transizione nella quale un gruppo di persone non binarie, transgender, queer, gay/lesbiche, bisessuali portano le loro esperienze individuali su un set re-inventandole in una serie di atti performativi. Corpi, voci, volti, bocche, occhi che si cercano e toccano in una inter-azione con la natura. In «Endless» un gruppo di persone non binarie portano le loro esperienze

SIAMO nelle forme di un cinema ibrido, d’avanguardia, abitato dalle sovrimpressioni, dove la pelle è indagata fin nei pori, dove la macchina da presa si muove in sintonia con i gesti di questa «comunità», crea ampie volute negli spazi, alterazioni visive in un costante frammentare e ri-comporre. Con questo film, al tempo stesso liquido e denso, Puś ha voluto «reclamare il diritto di parlare delle nostre storie con la nostra voce e dalla prospettiva di gente che ha realmente vissuto i fatti mostrati. Noi siamo i mostri, che finalmente possono parlare per se stessi».
Se Explanation for Everything dell’ungherese Gábor Reisz ha vinto il premio principale, quello del concorso internazionale, al festival hanno trovato spazio film del passato e del presente in grado di cogliere trasformazioni lasciando segni preziosi. Così – accanto agli omaggi dedicati a Nagisa Ōshima, Alain Tanner e Bertrand Bonello e alla necessaria sezione African New Waves (dodici film-faro della storia del cinema delle Afriche, compresa la rarità di Tajouj del sudanese Gadalla Gubara del 1977) – ecco ri-apparire il lungometraggio d’esordio della statunitense Jamie Babbit But I’m Not a Cheerleader (titolo italiano demenziale e maschilista Gonne al bivio, del 1999), commedia drammatica queer attorno alla presa di coscienza della propria identità di una ragazza, mentre altri titoli esplorano nuove figure femminili. Accade in Dead Girls Dancing (2023) di Anna Roller e My First Film (2024) di Zia Anger.

MOLTO DIVERSI per linguaggio, i due lavori portano in primo piano giovani donne di fronte a momenti cruciali delle loro vite. La tedesca Roller segue la vacanza in Italia di tre amiche appena laureate che, nel corso del viaggio, si trovano a gestire situazioni inattese e l’incontro con un’italiana che s’intrufola nelle loro giornate in un paesaggio assolato e desolato. Un film dallo sguardo sensuale, dall’andamento libero che cerca una sua trasversale credibilità nel flusso di scene svicolanti da una narrazione convenzionale.
L’artista visiva, regista e performer statunitense Zia Anger esordisce al cinema con un film basato sull’omonimo monodramma autobiografico del 2018 su una decade di lavoro per un progetto di film abbandonato. Un’autobiografia trasposta nella finzione, in un film nel film, seguendo le vicissitudini di una troupe e utilizzando vari formati. Humour diffuso, discussioni sul set, imprevisti, parole, energia, tensioni, camera a mano che si aggira a mezz’aria da un soggetto a un altro. Un indie-art film con pregi e limiti.