«L’acqua che ci passa sotto i piedi è inaccessibile, dobbiamo acquistarla dalla compagnia israeliana Mekorot. Trenta shekel per metro cubo, sei euro. I coloni la pagano tre shekel. Ogni famiglia per i bisogni base spende al mese mille shekel, due terzi di uno stipendio medio. Non siamo autorizzati a scavare pozzi, se non entro 150 metri di profondità, mentre i coloni possono arrivare a 800. L’acqua a cui abbiamo accesso è salata, inutilizzabile».

Qualche anno fa Rashid Khoury, responsabile dell’associazione Jordan Valley Solidarity, descriveva così la quotidianità idrica dei palestinesi in Cisgiordania. Cisterne sui tetti nelle città e nei villaggi dove immagazzinare l’acqua che arriva con cadenza mai inferiore alle due settimane. E cisterne portatili per le comunità in Area C (il 60% della Cisgiordania, sotto controllo militare e amministrativo israeliano).

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VA AVANTI così da decenni: a gestire la metà delle risorse idriche nei Territori occupati, in violazione del diritto internazionale, è l’azienda parastatale israeliana Mekorot, fondata nel 1937, dieci anni prima la nascita dello Stato di Israele, che come tante altre entità legate al movimento sionista di allora avviarono la colonizzazione della Palestina storica.

In Israele la Mekorot rifornisce d’acqua il 90% della popolazione. Dal 1982, al simbolico prezzo di uno shekel, ha assunto il controllo delle risorse idriche palestinesi, prima gestite dall’esercito israeliano.

Rifornisce – a prezzi diversi – le colonie israeliane e rivende alle comunità palestinesi l’acqua che gli scorre sotto i piedi. Secondo le campagne Stop The Wall e Who Profits, la differenza nei consumi è abissale: 350 litri al giorno per un israeliano in Israele, 400 per un colono nei Territori, 60 litri per un palestinese in Cisgiordania (il minimo previsto dall’Organizzazione mondiale della Sanità è 100 litri).

La scorsa estate Al-Haq, l’ong palestinese tacciata da Israele di terrorismo, è tornata ad accusare Mekorot (e altre compagnie israeliane e internazionali operanti nei Territori occupati) di complicità con l’occupazione militare per «distruzione e saccheggio delle risorse idriche palestinesi» e «possibili crimini di guerra» per il ruolo rivestito nell’espansione coloniale israeliana e nel trasferimento forzato della popolazione indigena, in violazione della Convenzione di Ginevra del 1949.

Ora, esattamente dieci anni dopo l’accordo siglato tra Acea e Mekorot, un’altra azienda italiana, Iren, ha firmato un protocollo d’intesa con la compagnia israeliana. Il 10 gennaio scorso, a darne notizia è stata la stessa Iren, multiutility a partecipazione pubblica, che gestisce buona parte del sistema idrico del nord-ovest italiano.

UN PROTOCOLLO, si legge nella nota, «per lo sviluppo e la condivisione delle rispettive conoscenze industriali e best practice nel settore idrico. (…) Iren e Mekorot valuteranno possibili forme di cooperazione, oltre ad attività di assistenza reciproca attraverso la collaborazione in progetti di ricerca e sviluppo».

«Iren e Mekorot – continua la nota – collaboreranno anche allo sviluppo e commercializzazione di tecnologie, (…) anche attraverso la partecipazione ai bandi di Horizon Europe». Lo conferma la stessa Iren, contattata dal manifesto: «Al momento si parla di gruppi di lavoro che si scambieranno reciproche esperienze, poi potremo partecipare congiuntamente a bandi per finanziamenti europei per l’innovazione. Mekorot ha competenze di gestione dell’acqua in zone di grande scarsità e purtroppo il nostro paese si dovrà abituare a dover gestire situazioni di questo genere».

«Il protocollo d’intesa prevede esclusivamente lo scambio e la condivisione di conoscenze ed esperienze tecnologiche e industriali sul tema della depurazione e della gestione delle reti. Questo protocollo e, in generale, tutte le attività che Iren intraprende prevedono un attento controllo del rispetto dei principi alla base della propria responsabilità sociale d’impresa», aggiunge l’azienda.

Di scarsità «naturale» d’acqua la Palestina non soffre, anzi, è tra le zone più fertili dell’intera regione mediorientale. Il problema è politico. Per questo la notizia non è passata sotto silenzio.

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Immediata la reazione di tante realtà locali, nelle regioni in cui Iren è attiva: l’azienda è controllata al 51% da comuni italiani (in prima fila Torino, Reggio Emilia e Genova e poi con quote minori Parma e Piacenza e altri piccole municipalità) ed è quotata in borsa, dunque partecipata anche da azionisti privati.

Tra i primi a prendere posizione i sindacati confederali. Cgil, Cisl e Uil Reggio Emilia definiscono il protocollo d’intesa «inopportuno», viste le accuse di violazioni del diritto internazionale che pesano su Mekorot, a partire dal «prosciugamento delle falde idriche palestinesi per fornire tali risorse alle colonie israeliane». «Non può una società come Iren, unitamente alle amministrazioni comunali che la controllano, rendersi complice di una simile situazione che prosegue ormai da decenni».

STESSA POSIZIONE di altre realtà che hanno espresso la loro contrarietà poche ore dopo l’annuncio. «Abbiamo fatto un blitz nella sede della Confcommercio di Reggio Emilia dove Iren ha degli sportelli per gli utenti – ci racconta Francesco Paone dello spazio Aq16 – Il nostro scopo era una denuncia pubblica e immediata di questo accordo. Parliamo di una pseudopartecipata del comune che ha già il monopolio, o quasi, delle utenze sul territorio, al centro di scandali, dai buoni uscita dei dirigenti al distacco di utenze su condomini interi. Un’azienda che si propone come la partecipata della gente, ma che in realtà persegue un interesse totalmente profittevole. Iren ha già privatizzato l’acqua a Reggio Emilia anche a fronte di un referendum vinto. Continueremo la mobilitazione».

Lo ribadisce Cosimo Pederzoli di Sinistra Italiana: «Nel comunicato si parla di bandi di Horizon Europe: la Mekorot ha già partecipato a otto bandi europei per milioni di euro. Vogliono sviluppare e non solo condividere conoscenze industriali. Il problema etico c’è: le conoscenze della Mekorot sono state acquisite ai danni della Cisgiordania occupata. L’altra questione riguarda la conformazione di Iren: è una partecipata e il nostro statuto comunale all’articolo 13z recita che il comune riconosce il diritto umano e inalienabile all’acqua potabile e l’acqua come bene comune pubblico». Pederzoli annuncia la nascita di «un comitato trasversale No all’accordo Iren-Mekorot»: «A oggi nessun consigliere o assessore a Reggio Emilia ha detto nulla. Presenteremo una mozione in consiglio comunale».

Alla caccia di una reazione della politica che, secondo Corrado Oddi del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, «ha abbandonato il proprio ruolo pubblico a favore di soggetti privati»: «Le grandi multiutility come Iren – ci spiega – da tempo hanno una vocazione a costruire profitti e dividendi. I comuni purtroppo hanno delegato il proprio ruolo ai consigli di amministrazione che ragionano con una logica di carattere privatistico».