L’ecologia politica
L’ecologia politica di Dario Paccino a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino (edito da Ombre corte)
ExtraTerrestre

Contro l’imbroglio ecologico della tecnocrazia dipinta di verde

Eco-filosofia politica L’ecologia politica di Dario Paccino a cura di Gennaro Avallone e Sirio Paccino (edito da Ombre corte)
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 30 maggio 2024

Nella prefazione a I colonnelli verdi, non solo Sebastiano Timpanaro si definiva una persona che in materia di ecologia politica «ha imparato tutto da Dario Paccino e non gli ha insegnato niente», ma sospettava che fossero in tanti a ritrovarsi nella medesima situazione.

Tre anni prima, nel 1987, l’entità di quel debito si era chiarita in polemica con Adriano Sofri e con la sua idea decisamente tempestiva di cogliere nell’emergenza ambientale una grande occasione per dichiarare concluse le «lotte fra umani», che tanto valeva scrivere «fine della storia», perché si sa che nelle ore più impegnative della specie dovremmo considerarci tutti sulla stessa barca.

L’IDEA, SCRIVEVA INSOMMA Timpanaro, era quella di un «verde interclassista» che grazie alla lezione di Paccino risultava francamente assurda, dal momento che «l’inquinamento non si sopprime se non si sconfiggono quegli umani che hanno tutto l’interesse a inquinare». Adesso, nella loro nota introduttiva a L’ecologia politica di Dario Paccino. Tra l’imbroglio ecologico e le lotte contro il nucleare, edito da ombre corte, i curatori Gennaro Avallone e Sirio Paccino lo ribadiscono con chiarezza, identificando il contenuto fondamentale di quella lezione con lo smascheramento di come l’ecologia venga insistentemente mobilitata nella manutenzione delle medesime gerarchie che hanno causato e continuano ad aggravare l’urgenza di un cambiamento.

MA IL MODO PIU’ EFFICACE per illustrare questa tendenza lo ritroviamo proprio nella primissima riga di L’imbroglio ecologico (anch’esso ripubblicato da ombre corte), dove l’autore dedicava il libro «a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitat che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale d’Abruzzo». Un libro del 1972 nel quale Paccino evidenziava appunto quali fossero gli esiti della pretesa separazione tra la natura e le vite dei lavoratori, la questione ambientale e quella sociale, accusando la stessa «sinistra» di averne ricavato una concezione talmente idealistica dell’ecologia da risolversi spesso nella sfera dei comportamenti individuali e del «dover essere».

Va detto che anche su questo punto Marx era stato chiaro, assumendosi il compito di studiare lo sviluppo della società nella prospettiva della storia naturale ed escludendo pertanto di nutrire il sia pur minimo interesse per le figure in rosigem Licht, vale a dire i singoli individui e i loro patemi, ma è pur vero che per restituire il giusto valore alla precedenza storica e pratica che le sue premesse accordavano alla natura si sarebbero dovuti attendere gli studi di Alfred Schmidt, pubblicati nel 1962. Ed è proprio questa precedenza della natura ad aggiudicarsi un’importanza cruciale nello sviluppo di alcuni contributi a L’ecologia politica di Dario Paccino, entrando in conflitto con la speculare propensione della scienza a «trasformare l’uomo nell’origine e fine di tutto».

UNA SCIENZA CHE LA CIVILTA’ ecologica del «dover essere» tende a considerare neutrale, imputandone gli effetti soltanto agli usi più o meno coscienziosi che se ne possono fare, laddove a risultare non meno effettive sono le cornici economiche e istituzionali in cui la ricerca elabora il prius della natura nella prospettiva della scoperta.

Di questo si tratta, anche nella seconda parte del libro, dedicata alla ricostruzione delle lotte contro gli usi militari e civili dell’atomo: non tanto di negare alla scoperta scientifica un valore oggettivo, ma di opporre all’irrazionalità degli appetiti che ne possono orientare i progressi una forza altrettanto sociale.

A questa forza, Paccino si sarebbe riferito nei termini di «plurilinguismo della liberazione», implicando la necessità di non confondere la critica al verde interclassista con il rinvio alla composizione più univoca del soggetto tradizionalmente rivoluzionario. Perché la classe è innanzitutto un movimento di organizzazione pratica e collettiva delle differenti esperienze che si possono patire delle storture del mondo e quella del suo congenito «plurilinguismo», pertanto, è un’indicazione che si potrebbe rivelare utile anche oggi, negli stessi giorni in cui a creare perplessità in merito alle proteste degli studenti universitari contro l’integrazione della ricerca nelle dinamiche della guerra sarebbe lo stato patrimoniale dei loro padri.

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