Nonostante la festa di lunedì a sera a Napoli per il neosindaco Manfredi, con Conte, Di Maio e Fico (con Raggi lasciata sola a Roma a leccarsi le ferite), il flop del M5S nelle urne in tutta Italia non poteva non avere conseguenze sui delicati equilibri interni. E così è stato.

SUBITO È PARTITO IL PROCESSO a Conte, accusato da varie parti – Raggi e Di Battista in primis – di essere troppo filo Pd. «A cosa serviamo se diventiamo una copia sbiadita dei dem?», urla il coro delle critiche. Ma anche Grillo ha riaperto il file dello scetticismo verso l’ex premier. «Eravamo francescani e ora siamo diventati Franceschini»: la battuta del Dibba di qualche giorno fa continua a fare male nella truppa grillina.

Per non parlare della foto di Napoli con l’odiato De Luca insieme a Di Maio e Fico. «Non ci resta che piangere, la nostra faccia sotto i suoi piedi», tuona l’ex deputato di Roma Nord.

TRA I PARLAMENTARI CIRCOLA una stima inquietante. Con il taglio dei seggi da loro voluto alle prossime elezioni potrebbero tornare in 60 sui 340 del 2018: ma se e solo se il M5S arriverà al 10%. Altrimenti saranno ancora meno. Nella truppa ormai se ne sentono di ogni tipo. Compresa l’idea che «il governo Draghi ci sta ammazzando». Compresa la tentazione di rompere con il governo definito «contronatura». O almeno la sperare che sia Salvini a fare il lavoro sporco e staccare la spina.

LE CRITICHE ARRIVANO anche da dirigenti di peso come l’ex ministro Vincenzo Spadafora che dicono basta con le ambiguità». «I nostri elettori vogliono capire chi, cosa e per quali obiettivi stanno votando», ha detto al Mattino, «Questa campagna non ha fatto emergere nessuno di questi aspetti. Per non essere succubi del Pd dobbiamo rilanciare i nostri valori identitari, non basta la figura di un salvatore, l’obiettivo non può essere sopravvivere». E l’ex titolare dell’Istruzione Lucia Azzolina: «Al governo dobbiamo ottenere di più, a partire dal reddito e dal salari minimo, essere un pungolo».

PER QUESTO CONTE, impegnato in Sicilia per la campagna elettorale, ieri ha dovuto mettere un punto: «Non ce lo vedo il M5s a fare un ramo dell’Ulivo… noi la transizione ecologica l’abbiamo nel Dna e siamo un albero che dà ossigeno per nostro conto». E ancora: «Il vecchio Ulivo è un progetto che ha avuto una contestualizzazione storica precisa. Riproporre vecchie formule adesso non credo abbia molto senso».

Prova a prendere le distanze dall’abbraccio coi dem. E allo stesso tempo l’avvocato del popolo non vuole e non può rompere con Letta in vista dei ballottaggi. «Gualtieri è una persona che ha lavorato con me e non lo rinnego, è una persona di valore. E non penso che il M5s possa avere compatibilità con le politiche della destra». «A Roma è una situazione assolutamente singolare», prova a dribblare Conte.

E se Raggi annuncia che prenderà un caffè (anche) con il candidato della destra Michetti, l’avvocato si affretta a chiarire che «non significa assolutamente fare un’alleanza, non scherziamo». E ripete: «Non possiamo misurare sul ballottaggio di Roma lo stato di salute del dialogo tra M5s e Pd».

ENRICO LETTA HA CAPITO la situazione e non si azzarda a chiedere di più all’alleato. Certo però che, dopo i ballottaggi, al Nazareno verrà fatto un esame su come l’alleanza con il M5S ha funzionato, non solo a Roma e Torino ma in decine di Comuni al voto.

A complicare il progetto di nuovo Ulivo ci pensa Carlo Calenda, che a Roma si è offerto di dare una mano a Gualtieri, ma a livello nazionale persegue l’obiettivo di dividere dem e grillini. E ieri ha tuonato su twitter: Conte mi dà lezioni di coerenza? Lo considero campione di qualunquismo e trasformismo. Non gli ho mai sentito fare un ragionamento interessante o affrontare una questione con competenza».

La sola idea poi che nella coalizione possa entrare Renzi fa venire i brividi ai grillini. «L’affidabilità che ha dimostrato è un problema, non tanto per il M5S ma anche per il Pd», attacca Conte.

Mentre alla Camera circolano voci di nuovi addii al gruppo, l’ex premier prende tempo: i nuovi organismi dirigenti arriveranno dopo i ballottaggi, passeranno altre settimane. Raggi intanto affila i coltelli. Potrebbe essere lei, sempre stimata da Grillo, a sfilare la leadership all’avvocato che Beppe non ha mai amato.