Sullo sfondo della decisione europea di restituire al giudice la responsabilità di una scelta sulla possibilità di reinserire progressivamente nella società persone che abbiano compiuti gravi reati, c’è la domanda radicale se sia legittimo tenere in carcere fino alla morte una persona. Parliamo, dunque, dell’ergastolo in sé, della pena fino alla morte o della pena di morte viva.

Già in questi giochi di parole, che dobbiamo a testimoni della sua realtà, come Nicola Valentino, Carmelo Musumeci ed Elton Kalica, il tema dell’ergastolo si associa a quello della pena di morte, essendone – sin da Beccaria – un sostituto simbolico e funzionale: la morte civile in luogo della morte fisica. Non a caso Valentino le ricomprende sotto l’antica, comune nozione di «pene capitali». È accettabile la pena capitale nel nostro ordinamento e nella nostra società?

Contro qualsiasi opinione diffusa, noi diciamo che la pena di morte non è mai legittima. Per il timore di un errore giudiziario, cosa che ci salverebbe l’anima di fronte all’ergastolo? No, non solo. Diciamo di no perché non accettiamo di metterci sullo stesso piano di chi commette violenza, la più efferata di tutti, per di più con la protervia di chi sa di farla franca. «Noi non siamo come loro»: questo è il primo argomento che impedisce a molti ordinamenti democratici di comminare la pena capitale.

«Noi non siamo come loro» equivale a dire che, al contrario di chi commetta i reati più gravi, noi riconosciamo un’umanità intangibile in ciascuna persona. È questa quella rivoluzione della dignità di cui scriveva Stefano Rodotà.
«L’uomo, e ogni essere razionale in genere, esiste come scopo in se stesso, e non solo come mezzo perché sia usato da questa o quella volontà», scriveva Kant. «In tutte le sue azioni, dirette sia verso se stesso sia verso altri esseri razionali, esso dev’essere sempre considerato, al tempo stesso, anche come un fine».

Un essere umano non può essere considerato esclusivamente un mezzo per fini altrui senza decadere a cosa, quand’anche quei fini fossero della maggioranza dei consociati, per esempio nel contrasto alla devianza criminale. Il principio di dignità umana implica che un essere umano (anche l’autore del più efferato reato, anche nella contingenza più grave) non possa essere messo a morte così come non possa scontare effettivamente l’ergastolo: la loro esecuzione infatti, della pena di morte come dell’ergastolo, perseguirebbe esclusivamente fini a lui estranei, quali possono essere quelli della sicurezza della comunità che si avrebbe attraverso la sua morte fisica o civile o attraverso l’esempio che essa darebbe nei confronti del prossimo.

Intervenendo in Senato, in occasione dell’ultima discussione di un disegno di legge per la sua abolizione, Aldo Masullo ci esortava a cambiare il tenore della domanda sulla accettabilità etica dell’ergastolo: «La domanda che ci dobbiamo porre non è se esso violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il diritto all’esistenza. L’esistenza designa la condizione, che noi sperimentiamo momento per momento, dell’incessante perdere parte di noi stessi e essere sbalzati verso un’altra identità, fuor della quale presto saremo ancora sbalzati».

Nella pena il condannato è identificato con il suo passato, anzi: con un fatto, un episodio del suo passato. Questo congelamento dell’identità, nel condannato a pena temporanea vive della consapevolezza di una vita ulteriore oltre di essa, e dunque del tentativo di prepararvisi, mantenendo legami affettivi e familiari, attrezzandosi ad affrontare le sfide che ne verranno. Per il condannato alla pena dell’ergastolo, viceversa, il tempo si ferma: non c’è un dopo a dare senso al presente. «L’ergastolano – diceva ancora Masullo – nella sua condizione, di momento in momento, di ora in ora, vede morire parte di se stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova».

Allo scandalo della morte come pena denunciato da Beccaria, si aggiunge quindi lo scandalo della vita come pena, della identificazione tra pena e vita. Se con la morte la vita cessa di esistere, nella identificazione tra pena e vita, la vita umana è ridotta a mera riproduzione delle sue componenti biologiche. Siamo disposti ad accettare una simile involuzione antropologica?