È iniziata? Sono le 21 quando a Tel Aviv i cellulari dei giornalisti iniziano a squillarea e ognuno si chiede se le forze armate israeliane abbiano dato il via all’invasione via terra della striscia di Gaza. «Non ne resterà neanche uno vivo» aveva dichiarato ieri il premier Netanyahu dopo aver intimato ai residenti della parte settentrionale della Striscia si spostarsi al sud, verso il confine con l’Egitto.

Alle 22 la città trema, dei razzi esplodono vicino al centro. «E quanti degli ostaggi ritenete siano ancora vivi?» chiediamo a Shoshanna, l’addetta alle relazioni con la stampa delle forze armate israeliane (Idf). «Non posso commentare oltre» risponde lei. Nel messaggio prima aveva scritto che al momento l’Idf ritiene che ci siano 120 persone nei bunker di Hamas «alcune provenienti da paesi stranieri, come confermato dai governi coinvolti». La maggior parte degli analisti concorda che siano ancora vivi e che Hamas intenda usarli come merce di scambio, ma il fatto è che nessuno può saperlo. In Israele, a parte Shoshanna e i vertici politici e militari, sembrano tutti convinti che questi ostaggi siano già morti. O, perlomeno, che un’eventuale azione militare non influirà sulla loro vita. Per le strade di Tel Aviv sono in molti a camminare con un cartello «riportateli a casa», «vogliamo sapere dove sono», «agite, ora!». Ad alcuni incroci del centro si organizzano sit-in. Le bandiere di Israele sono dovunque: sulle biciclette dei rider che fanno le consegne, sulle macchine ferme ai semafori, sulle schiene di chi passeggia, proiettate sui palazzi o sui cavalcavia.

«STAVOLTA dobbiamo farla finita» dice Oren, uno dei portavoce dell’associazione «Brothers and sisters in arms». Il gruppo è nato tempo fa ma in seguito alla riforma della giustizia voluta da Netanyahu ha cambiato il suo obiettivo e si è schierato a fianco dei manifestanti. «Netanyahu ha rovinato questo Paese, ha provato a trasformarlo in una ‘democrazia vuota’ e nel frattempo ha lasciato che tutto andasse alla deriva».

Nel campo di Beit Kama, a poca distanza dalla striscia, ci sono centinaia di «volontari» che lavorano alacremente. «Siamo tutti ex-soldati, anche se tecnicamente in Israele hanno tutti fatto la leva quindi non è una gran distinzione, io però sono un effettivo, un tenente colonnello delle forze speciali. Comunque, all’inizio eravamo in sette a scambiarci messaggi su una chat, abbiamo pensato che ciò che Netanyahu stava facendo era sbagliato e che andava fermato e abbiamo organizzato una manifestazione. Non ce l’aspettavamo ma quella volta hanno partecipato in 300. Due settimane dopo eravamo in 5mila e siamo cresciuti sempre più. Ora nel gruppo di whatsapp ci sono 70 mila persone».

COSA LI TIENE insieme? «La voglia che Israele non diventi ciò che Netanyahu vuole, che non si trasformi nell’Ungheria o nella Russia, ma che resti un Paese accogliente». Parole che non ci si immagina di sentire da un uomo con un mitra a tracolla. Ci passa accanto un ragazzo con una maglia simile alla sua e la scritta «Brothers in Arms» inscritta in un cuore arcobaleno, gli chiediamo cosa rappresenta. «All’inizio ne abbiamo discusso: la comunità Lgbtq era tra gli obiettivi delle politiche repressive di Netanyahu che vuole togliere diritti a tutti e perciò abbiamo deciso di accoglierli tra di noi, ora sono parte della nostra lotta». Quindi si considerano un movimento di sinistra? «Più liberale direi, anche se non facciamo politica». E su ciò che è successo sabato qual è la loro posizione, anche gli attacchi di Hamas sono conseguenze della politica di Netanyahu? «Certamente, non ha fatto nulla per difenderci, com’è possibile che non fossimo pronti?». Se lo chiede tutto il mondo. E ora? «Ora bisogna entrare a Gaza e abbatterli tutti». La pacatezza con cui pronuncia l’ultima frase, come se parlasse ancora di tolleranza, è spiazzante. «Ma i palestinesi?» chiediamo a David, membro della stessa associazione, mentre ci spostiamo in macchina verso Re’im, dove i miliziani di Hamas hanno sferrato il primo attacco contro i ragazzi che erano lì per un rave. «Sono sicuro che il 95% dei palestinesi siano brave persone, ma Hamas è Isis, va fermata». Quest’ultima è una tesi già storicizzata qui in Israele. Se Hamas è come Isis va trattata come l’Occidente ha trattato i jihadisti. Dunque: distrutta. «D’altronde gli americani l’hanno fatto, no?». Obiettiamo che non è finita bene. David riflette e poi aggiunge: «Non possiamo lasciare che succeda di nuovo».

SUL SEDILE anteriore Nihr, cileno in Israele da 8 anni, dice in spagnolo: «Tutto marcio. Con Netanyahu è tutto marcito qui. Non possiamo essere sicuri di niente. Ma non è solo lui, anche i vertici dell’esercito e dei Servizi, cosa facevano? Ti rendi conto che un gruppo di mille duemila persone», «400 lo interrompe David, dicono 400», «va bene, 400, hanno occupato una parte del nostro Paese?». Ma forse a Netanyahu faceva comodo, forse voleva che Hamas prendesse tutto questo potere quando ha ostacolato Al Fatah e l’Anp. E allora che c’entrano i palestinesi? «Da dove viene Hamas secondo te? Sono loro che l’hanno eletto e loro che lo coprono. Comunque, ci sarà tempo per capire cosa fare con Gaza dopo, ora però dobbiamo vincere la guerra». Sapete tutti che sarà un massacro di civili, insistiamo. «Il massacro già c’è stato, sabato scorso, ora devono pagarla».