Nei giorni immediatamente successivi alla strage del Bataclan, la lettera aperta ai terroristi del marito di una delle 130 persone uccise quella notte del 13 novembre 2015 tra la sala del concerto e i bar e i ristoranti lì intorno, era divenuta quasi un manifesto: non avrete il mio odio, scriveva Antoine Leiris, rimasto solo col figlio piccolino che prometteva di crescere «lontano dalla paura». Queste parole, sull’odio e sull’amore, con riferimento a quella lettera entrano anche nel film di Isaki Lacuesta, Un año, una noche tra i discorsi dei quattro amici sopravvissuti all’attentato. Ma cosa significa «sopravvissuto»? Che implicazioni porta con sé e quali cesure? Come trovare le parole capaci di definirne un senso senza fermarsi alla sola dimensione della «vittima», con le quali dare voce all’esperienza, anche quella che si preferisce tacere?

QUALCOSA sfugge sempre, «non riesco a ricordare i dettagli, mi rendo conto di dimenticare moltissime cose» dice uno dei personaggi alla compagna, mentre prova seguendo i consigli di una psicologa a mettere per iscritto quei fatti. Lacuesta si è ispirato al libro di Ramón Gonzalez, spagnolo che viveva a Parigi e era al Bataclan insieme a due amici e alla sua ragazza, anche loro sopravvissuti, Paz amor y Death Metal, lavorando – come viene dichiarato nei titoli di testa – su molte altre testimonianze; anche se questo non è un film «sull’attentato» al Bataclan, nel senso che non ne ricostruisce gli avvenimenti seppure attraverso i ricordi intermittenti dei protagonisti ciò che è accaduto nella sala affiora. Piuttosto è un film sul trauma di chi lo ha vissuto, che è anche quello di un Paese, la Francia, durante i giorni successsivi attonita (ma era già stata uccisa l’intera redazione del giornale satirico Charlie Hebdo pochi mesi prima, e Lacuesta arriva all’attentato a Nizza nell’estate dopo), incapace di comprendere a cominciare dalle sue istituzioni – nel discorso di fine anno alla nazione, ripreso nel film, il presidente Hollande individuava le origini del male in Siria e in Iraq, eppure gli attentatori erano nati e cresciuti in Europa. Come spiegare, allora? E soprattutto, partendo dal dolore di un vissuto, in che modo renderlo narrazione collettiva, memoria condivisa lontano dalle semplificazioni della vendetta o dell’odio?

È su questo che si interroga il film di Lacuesta, finora uno dei migliori nel concorso di una strana Berlinale, un po’ malinconica su una Potsdamer Platz svuotata – probabilmente è spesso così ma affollata dai festivalieri appariva diversa; e lo fa attraverso due personaggi, Céline (Noémie Merlant, magnifica interprete in Ritratto di una ragazza in fiamme) e Ramón (Nahuel Perez, già protagonista di 120 battiti al minuto di Robin Campillo), una giovane coppia che era al concerto degli Eagles of Death Metal – era il regalo di compleanno per Cèline, Ramón quel gruppo lo detestava. Gli amici, le risate, un bicchiere, il solito ritardo di lui, un bacio, ballare tutti insieme: una serata speciale e al tempo stesso come tante altre. Céline lavora in un centro di reinserimento per ragazze e ragazzi, sono quasi tutte e tutti di origini africane o arabe, Ramón è un ingegnere informatico molto quotato, con la passione per la chitarra e la musica, spagnolo radicato a Parigi come l’amico Carlos. Lui e Céline si amano, nel loro piccolo appartamento sono felici. E poi? La paura, la confusione. La normalità della lavatrice il giorno dopo, le crisi di panico del ragazzo, i silenzi della ragazza, un quotidiano che non può più essere lo stesso: lui vuole ricordare, non perdere nemmeno un particolare di quella sera anche se le cose sembrano sfuggire ogni giorno di più, lei invece cancella, non dice nulla di ciò che ha attraversato neppure ai genitori o al lavoro. Lui il lavoro lo lascia, si stona, lei ogni giorno è più stanca. Litigano, lei lo accusa di volere il ruolo di vittima solo per lui, che tutto gli deve ruotare intorno. Lui le rimprovera la freddezza, la chiama cyborg: entrambi hanno bisogno di respirare, devono allontanarsi, la casa è soffocante e la loro relazione pure, la tenerezza cede al rancore, la complicità alla distanza, ritrovarsi è impossibile, cambiare tutto necessario.
La regia di Lacuesta mischia, sovrappone, confonde, trasforma i materiali di partenza, costruisce una distanza nella scrittura – la sceneggiatura è dello stesso Lacuesta e di Isa Campo e Fran Araujo – utilizzando più dispositivi e molteplici temperature emozionali. I fatti affiorano in un andirivieni nel tempo che è il movimento della memoria, mentre i diversi personaggi nei loro spaesamenti esprimono una gamma di reazioni anche contraddittorie confrontandosi con le immagini di violenza, terrore, morte rimaste nei loro occhi: un pulviscolo di umanità.

È UN FILM di fantasmi Un año, una noche, con l’oblio che si oppone al dolore della perdita di una persona amata, di un sentimento, di una parte di se stessi, della propria storia, di uno stare al mondo. La coppia ha reazioni diverse, forse comuni, e cerca di non farsi intrappolare, specie Cèline dalle ossessioni, non vuole demonizzare ogni arabo come accade intorno a lei, ma le provocazioni di una ragazzino fiero dell’attentato può davvero sopportarle?
In questo processo che si fa elaborazione del lutto, o almeno ne prende consapevolezza, il regista catalano mette in campo molte questioni che riguardano il nostro tempo, i suoi conflitti – pensiamo al senso del processo agli attentatori del Bataclan la cui sentenza è attesa per maggio – ma sempre affidandosi al cinema, alla dimensione romanzesca che gli permette di evitare la retorica della materia trattata, i sentimentalismi pure se utilizza il melò, l’ imposizione di una sola lettura dogmatica, in cui tutte le risposte sono pronte.
Il suo punto di osservazione rimane la coppia con la sua lotta e l’impensabile di quella nuova condizione. È da qui che l’atto di ricordare trova una sua forma e una sua (tra le molte possibili ) narrazione.