La destabilizzazione Usa dura da 40 anni e i nodi vengono al pettine. La Siria – come Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Isis – fa parte di questa «guerra permanente», come ha scritto ieri sul manifesto Tommaso Di Francesco. In Siria inizia dalle ambizioni di Erdogan di diventare il Reìs del Medio Oriente. E da quando queste ambizioni incrociano quelle del segretario di Stato Hillary Clinton, che si sente già presidente Usa in pectore. La strategia Usa è lo stay behind: guidare da dietro le rivolte arabe del 2011, come già, con i soldi sauditi e la retrovia del Pakistan, avevano diretto i mujaheddin afghani contro l’Urss che aveva invaso il Paese nel 1979.

AI CONFINI tra Siria e Turchia viene quindi creato un Afghanistan alle porte dell’Europa, che ne subirà tutte le conseguenze, dai profughi al terrorismo, senza essere per niente innocente: Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, partecipano con l’intelligence nel supporto ai ribelli, saranno complici dei jihadisti e dopo, quando farà comodo, appoggeranno i curdi. La capitale di tutto questo è stata in questi anni la città turca di Gaziantep mentre Erdogan apriva «l’autostrada del jihad» e la provincia di Hatay veniva trasformata in retrovia dei ribelli.

Nel nuovo Afghanistan turco-siriano-iracheno i soldi restano quelli delle monarchie del Golfo, la Turchia prende il ruolo del Pakistan e i mujaheddin diventano l’internazionale jihadista. Hillary Clinton amministra questo «caos creativo» certificando le famose riunioni dell’«opposizione siriana»: una copertura d’immagine per i tagliagole lanciati sul terreno. L’obiettivo? Far fuori i regimi che hanno legami con Mosca come la Siria, frenare la Mezzaluna sciita dell’Iran, insediare governi fondamentalisti sponsorizzati dalle monarchie del Golfo e uno stato cuscinetto tra Iraq e Siria per consentire la rivincita ai sunniti dopo la caduta di Saddam nel 2003.

Primo beneficiario dovrà essere Israele che punta alla frammentazione degli stati arabi e al contenimento dell’Iran per diventare il solo guardiano della regione. In realtà alla fine di tutto questo piano americano, condiviso da britannici, francesi, italiani, qatarini e sauditi (questi ultimi i maggiori finanziatori di Hillary Clinton), sono riusciti solo due obiettivi: 1) la distruzione della Siria; 2) l’annessione di Israele del Golan – dove Netanyahu ha manovrato i jihadisti in funzione anti-Assad e anti-iraniana – e Gerusalemme capitale. Il tutto con volontà e benedizione di Trump. Che parla di ritiro da «guerre ridicole» ma a quanto pare di queste guerre condivide tutte le finalità.

E C’È UN GIORNO preciso in cui tutto questo è iniziato: il 6 luglio 2011, alcuni mesi dopo la ribellione contro Assad, quando l’ambasciatore americano Robert Ford da Damasco va ad Hama a passeggiare tra i ribelli anti-Assad. Era il segnale di via libera: il regime di Damasco doveva essere eliminato. Robert Ford ha poi riconosciuto in diverse interviste, una a Newsweek nel giugno 2017, che in Siria ci fu l’intervento dell’Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo, assieme alla Turchia, per sostenere i ribelli e che questi sono poi confluiti nei gruppi radicali dell’Isis e di Al Qaeda. Insomma gli Usa e il segretario di Stato Clinton sapevano benissimo cosa stavano facendo e perché poi hanno mandato truppe sul terreno quando è scesa in campo la Russia nel 2015: la rivoluzione popolare contro Assad era finita in mano ai jihadisti e loro li stavano usando contro un alleato dell’Iran, il vero bersaglio di una guerra per procura in cui Teheran e gli Hezbollah avevano tenuto in piedi il regime siriano.

Ma qui hanno continuato a bersi la favoletta dei gruppi ribelli «moderati» e quando sono comparsi i curdi con l’eroica resistenza di Kobane – loro sì laici – gli Usa e gli occidentali ci hanno messo il cappello sopra per rimediare al disastro architettato con Erdogan. Adesso, sconfitto l’Isis, i curdi non servono più. In una intervista in carcere a Homeland Security l’«ambasciatore» del Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino in Siria dal 2013, spiega: «Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia. Mi incontravo con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato». L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo.

MA ADESSO si deve rimediare a un altro disastro: avere lasciato la Turchia – dopo il fallito golpe del 2016 -, a dialogare con Putin e, di fatto, fuori dalla Nato cui Ankara appartiene dal 1953. Quindi si danno i curdi in pasto a Erdogan: ecco il senso dell’accordo tra Ankara e Washington del 7 agosto scorso. Com’è il senso del silenzio di Mosca e di un altro scambio con la Turchia: Assad, prima di occuparsi dei curdi, deve recuperare Idlib e provincia occupate da jihadisti e milizie filo-turche. È il nuovo ordine bellezza.