La coda gira l’angolo, davanti alla sede di Sberbank nel pieno centro di Mosca, tra palazzi di lusso e sanpietrini ben lucidati al suolo. Tutti al bancomat, a caccia di rubli o degli ormai introvabili o costosissimi dollari.

A Mosca, a San Pietroburgo, in altre città, ovunque la stessa scena. È il fronte interno della guerra in Russia, disarmato ma non meno pericoloso.

Domenica gli Stati uniti hanno vietato ogni transazione con la Banca centrale russa e il G7 (Italia inclusa) ha congelato tutte le riserve russe in dollari custodite nei suoi forzieri, inoltre l’esclusione dal sistema internazionale di pagamenti Swift sembra cosa di ore…

Colpi terribili per Mosca, che in un giorno ha visto sparire metà delle sue grandi riserve valutarie, uno scudo stimato in 630 miliardi di dollari che riteneva in grado di resistere a quasi tutto. Con mezzo di quello scudo imprigionato nei freezer finanziari dell’Occidente, il rublo è crollato e in un giorno ha perso fino al 30%.

La Borsa di Mosca non ha nemmeno aperto. I tassi di interesse sul debito russo sono passati da meno del 10% a oltre il 20% per trovare acquirenti, e sono tassi da Argentina di vent’anni fa – finì malissimo, tra banche assaltate, debito impagabile e la creazione di fantasiose monete locali come il patacón di Buenos Aires.

Ieri Vladimir Putin ha riunito il gabinetto finanziario e non quello militare. Il presidente ha tuonato contro «l’impero della menzogna» occidentale e firmato un decreto che vieta il trasferimento di capitali su conti esteri (gli argentini lo fecero in massa), ordinando agli esportatori di cambiare in rubli l’80% dei loro guadagni.

«Le condizioni dell’economia russa oggi sono cambiate drammaticamente», ha detto la governatrice della Banca di Russia, Elvira Nabiullina. E se ne sono accorti tutti: a Londra Gazprom ha perso il 51%, Lukoil il 63%, Rosneft (petrolio) il 42%, Magnit (alimentari) il 74%. Sberbank ha perso il 74% e, secondo la Bce, la sua divisione europea è sostanzialmente già fallita. In un giorno.

Un massacro che fa preoccupare anche qualche oligarca. L’intoccabile re dell’alluminio Oleg Deripaska sui social media ha inneggiato alla pace e ha dichiarato «morto il capitalismo di Stato», pilastro del putinismo reale.

Il superfinanziere Mikhail Friedman, signore di Alfa Bank, con un patrimonio di 15 miliardi di dollari, ha scritto ai dipendenti (londinesi) per dire che «la guerra non può mai essere la risposta» e si è dichiarato «fiero della cittadinanza russa ma profondamente attaccato a Leopoli», la città ucraina dove è nato.

L’astuto Roman Abramovic invece si è presentato ai colloqui ucraino-russi «chiamato – dice lui – dalla parte ucraina». Il suo Chelsea lo ha già intestato a fiduciari.

Le code al bancomat fanno il paio con quelle per salire – non certo volontariamente – sui cellulari della polizia. Ovd-Info è un’ong con una trentina di dipendenti e dieci volte tanti volontari, che monitora le persecuzioni politiche in Russia e offre assistenza legale – quando può – e denunce mediatiche – ogni volta.

Il contatore degli arrestati che campeggia sul suo sito ieri sera segnava 6.386, altrettante persone ammanettate per aver manifestato contro la guerra o anche solo essersi riunite in più di tre alla volta in sospetto «tradimento della patria» – il reato che viene sempre contestato.

Tra gli arrestati c’è anche Maria Alyokhina, storica esponente delle Pussy Riots, il collettivo punk e femminista che da dieci anni lotta contro Putin – e che ha già fatto un anno e rotti di galera. Questa volta se la caverà, si fa per dire, con 15 giorni per «disobbedienza alla polizia».

Contraccolpi anche sui media di stato russi, che l’Europa ha deciso – con una decisione inaudita persino contro la pura propaganda – di censurare, limitando ripetitori e web. Sputnik è un sito, un’agenzia di stampa e una radio in trenta lingue, con uffici a Washington, Cairo, Pechino e Londra e due terzi dei programmi di news internazionali.

Rt – un tempo Russia Today – è il primo canale tv digitale russo, trasmette in inglese, arabo e spagnolo, i molti video di disastri naturali gonfiano un’audience modesta – ma ha 2 milioni di iscritti su Youtube.

Sono la discutibile punta di lancia dell’informazione targata Putin, interamente posseduta dal Cremlino – e una legge putiniana vieta di tagliare i finanziamenti annuali (300 milioni di dollari l’anno per Rt).

La direttrice di entrambe le testate, Margarita Simonyan, è un’armena di 41 anni – ne aveva 25 quando venne messa a capo di Russia Today nel 2005: «Non licenzieremo nessuno, in nessun paese. Sappiamo come lavorare nonostante i divieti». E ne hanno avuti, negli anni. Negli Stati uniti sono stati costretti a registrarsi come «agente straniero».

Quasi non si parla più dell’«allerta nucleare» accennata domenica da Putin. Ma già l’accenno è troppo.