Sono le sei del mattino fuori dall’aeroporto di Tindouf, l’ultimo avamposto territoriale dello stato algerino, a poca distanza da Marocco e Mauritania. Dopo due giorni di mancati atterraggi per le condizioni climatiche avverse in un giorno qualsiasi di febbraio il vento è cessato. Azma, originario del villaggio di Dakhla, nei territori occupati, ha combattuto per 15 anni contro il governo di Rabat. Ora è fa da autista in una notte insolitamente fredda, gli occhi intensi nel buio a mo’ di segnale della determinazione del suo popolo.

UNA COLONNA DI JEEP dei lontani anni Ottanta procede verso la frontiera saharawi, la Wilaya di El Aaiun. È l’unico punto in cui i militari di Algeri consegnano alle guardie della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi (Rasd) i cittadini stranieri in visita. Da lì in avanti le rotatorie segnano le piste che conducono ai campi dei rifugiati, un’area organizzata in cinque Wilaya (province) e trenta Daira (villaggi), dove vivono gli esuli. Una cessione temporanea di sovranità territoriale che dura ormai da quasi 50 anni. La contesa del Sahara Occidentale nasce negli anni Trenta del Novecento ed è segnata dalla decolonizzazione spagnola, dalla bramosia marocchina e dall’autodeterminazione di un popolo nomade, in un territorio di 266mila km quadrati con coste pescose e giacimenti di fosfati ubicati nella grande miniera di Bou Craa.

SUKAINA HA 84 ANNI e il volto tagliato dalla luce trasversale che filtra nella sua abitazione, nel barrio 4 della Daira di La Guera. L’anziana ha vissuto le tre generazioni più dure per il popolo Saharawi. Fino al 1975 l’attesa di un referendum per l’indipendenza stabilito dall’Onu, poi una guerra di 15 anni, l’arbitraria costruzione a opera di Mohammed VI del «Berm» – il muro della vergogna per i Saharawi – e la divisione tra i territori «utili», occupati dal Marocco e ricchi di giacimenti di metallo, e le aree liberate dal Fronte Polisario, che ieri ha compiuto 50 anni.

NEI MESI DELLA MARCIA VERDE marocchina, un’invasione militare con l’obiettivo di alterare l’esito della consultazione, Sukaina è stata costretta a fuggire con la famiglia. Il figlio Abdellhai traduce il suo breve racconto. «I camion del Fronte Polisario sono arrivati subito, in cielo due aerei militari cercavano di individuare chi scappava, le donne nascondevano i figli e gli anziani sotto i vestiti. In cinque giorni siamo arrivati nei campi». Dal 1991 una fase di tregua, la risoluzione Oua-Onu sul referendum, poi, nel novembre 2020, il casus belli, ovvero la protesta delle donne saharawi al passo di El Guarguarat. Gli stivali marocchini aprono il fuoco e inizia un nuovo conflitto, tuttora in corso. Salek è invalido dall’età di 18 anni, non ha mai combattuto. La sua tenda è di fianco a una nuova casa in costruzione con mattoni di cemento. Chi può destina le vecchie abitazioni in sabbia, sgretolate dalla pioggia e senza tetto, a recinto per galline e capre smagrite. Le gambe incrociate su un tappeto ricamato, due figli giovani al fronte, Salek non è d’accordo con il cessate il fuoco. «La tregua è stata un errore. Il Fronte Polisario, con Nazioni Unite e Marocco, ha tradito il popolo con il referendum. Siamo stati troppi anni ad attendere una mano tesa». Anche lui è fuggito. Dal villaggio di Bir Anzarane, nascondendosi per un mese in una grotta di montagna e spostandosi sotto il ventre degli asini con la sorella. Nei campi è venuto volentieri, ha ricevuto una formazione amministrativa e fatto il segretario del vicesindaco. Tuttavia, la percezione del benessere iniziale sembra sgretolarsi per via della prolungata attesa che destabilizza pensieri quotidiani e prospettive dei giovani spingendoli verso una frustrante solitudine.

Campi profughi saharawi. Villaggio di La Guera foto di Renato Ferrantini

KHALIA È LA PIÙ PICCOLA in casa. Trascina eccitata i piedi nella sabbia umida dopo un acquazzone notturno. Ha trovato dei germogli e li custodisce, facendoli ingenuamente morire, sul palmo della mano, le cui grinze curve sembrano sorridere. Sull’uscio di casa Hira, padre ex militare non vedente e madre anziana, sente i nostri passi. Non si possono scattare foto, ma le sue parole colpiscono più di qualunque immagine. «A sei anni sono stata a Castilla-La Mancha, ci sono tornata cinque volte in estate, ora ne ho 22 e so che in questa vita non avrò nulla. Potevo fare l’infermiera o la maestra ma non posso studiare, qui è come se fosse un’altra terra».

HIRA NON È L’UNICA a percepire uno spazio mancante. La sopravvivenza nei campi dipende dagli aiuti umanitari internazionali: Pam, Unicef e Onu. Spetta poi alle comunità locali occuparsi della distribuzione di acqua e cibo ai rifugiati. Alcune associazioni solidali promuovono invece adozioni a distanza. Esistono, inoltre, strumenti di finanziamento a beneficio delle famiglie per progetti di coltivazione o allevamento sostenibili, accompagnati da programmi di formazione. Molti, nati nei campi e ormai 50enni, sono andati a studiare a Cuba. Alcuni hanno trovato lavoro in Spagna e mandano le rimesse alla famiglia. Altri sono tornati per praticare la professione medica negli ospedali di Rabouni o Aguenit. Qui però mancano materie prime per i farmaci galenici o le intubettatrici di pomata che viene versata nei contenitori con il cucchiaio. Solo chi ha la cittadinanza spagnola – perché la famiglia era iscritta all’anagrafe del paese colonizzatore – ha libertà di movimento.

SID BRAHIM MOSTRA il suo nuovo regalo nella tenda con i grossi fiori ricamati. Il delfino e il telo azzurro sullo sfondo sono un ossimoro visivo, per tutti i giovani del campo il miraggio di un qualcosa mai comparso realmente dinanzi ai loro occhi. «Mullay, è questo il mare?», chiedono i bambini al loro accompagnatore il primo anno di accoglienza estiva in Italia, con il progetto «Piccoli Ambasciatori di Pace». «No, è una piscina!». A bordo della pista si notano cinque taniche gialle su una precaria tavola sostenuta da lamiere vuote e piene. Sulla strada ocra del mercato, tra la Daira di La Guera e Aguenit, incontro Kaver che aiuta un amico nella vendita della benzina. Aspetta che qualcuno si affacci ai finestrini sbucando dalla polvere. Mohamed, la guida, fa un cenno e si accorda per dieci litri. Non vuole aspettare il suo futuro, il fratello è già in Europa. «Sono stato in Spagna fino a 13 anni, ora non posso tornarci per studiare».

GLI ACCORDI SEGUITI al cambio di rotta del governo Sánchez si sono interrotti. Kaver ha le idee chiare. «Se necessario prenderò la patera (piccola barca, nda). Ho conosciuto un amico in Spagna che è venuto dal Mali, ha attraversato Mauritania e Marocco e poi è arrivato a Ceuta». Subito ritratta. «Vivo con mia zia, sono orfano, fino a 25 anni voglio fare l’operaio per mettere da parte i soldi. Ma rimanere qui è come rimanere fermi, seduti». Due giorni dopo nella sua tenda raffredda il tè travasandolo freneticamente tra le tazzine. Aggiunge nuovi pensieri, più adulti. «Sono pronto ad andare in guerra se ci sarà una chiamata collettiva, ma ottenere la libertà attraverso un conflitto armato sarà un sacrificio per noi e loro. Siamo tutti esseri umani e siamo della stessa carne». Si riferisce ai marocchini, che non nomina mai. «Il popolo Saharawi è sopravvissuto per molto tempo, aspetteremo quello che manca. È una questione di cuore forte». E il suo pugno si alza come una speranza. Non è facile afferrare nel profondo lo stato d’animo incerto di questo popolo.

DAL 13 NOVEMBRE di tre anni fa e dalla ripresa della guerriglia dopo 30 anni di tregua, qualcosa è cambiato. Gabal è una giornalista di Radio Saharawi che segue la delegazione nella visita al Centro di Disabilità di La Guera. Racconta cosa è accaduto quel giorno. «La città si è fermata, negozi e farmacie hanno chiuso. Giovani e anziani sono corsi a Rabouni (sede del governo Rasd, nda). È stata una chiamata popolare. Mio nonno malato aveva bisogno di un pannolino, ci siamo strappati i vestiti per procurarglielo». In macchina la radio nazionale dà altre conferme. La traduzione dall’hassanya, la lingua dei rifugiati, è molto semplice. «Noi tutti dobbiamo dare l’appoggio ai militari saharawi, loro riusciranno a darci l’indipendenza, non le Nazioni Unite, né il mondo occidentale». Per l’ultima notte nel villaggio cambiamo casa e, forse, prospettiva.

TAWUALO HA COMBATTUTO fino a dicembre nei gruppi di supporto dei militari e per lui è netta la differenza con chi non è mai andato al fronte. «Desiderare un conflitto significa non aver visto gli occhi dei prigionieri. Uccidere un fratello arabo è una debolezza. I marocchini pagano gli errori del governo e sono costretti alla guerra per comprare il pane, noi la stiamo facendo per tornare nella nostra terra, il Sahara Occidentale». Sull’evoluzione della guerriglia, come a rassicurare un’ampia platea presente e assorta, è ancora più categorico. «Voglio aspettare ancora un po’, voi siete le nostre palomas blancas della diplomazia. Le parole che porterete fuori da questa casa sono più forti e incisive della politica, che è malata». Prima di tornare nella stanza comune alza le braccia mimando una bilancia. «Sì, in questo momento siamo in bilico, tra una bandiera bianca e una mitraglia». Nel cortile interno è quasi buio, Leila si appoggia al muro lungo, contando. La sorella Lamina e la cugina Alwaha si avvicinano senza farsi sentire. «Un, due, tre, stella!», è un gioco tradizionale anche qui. L’auspicio, con gli occhi di nuovo aperti, è di ritrovarsi di là, liberi, nella terra attesa da mezzo secolo.