Le passate edizioni dei libri di Clarice Lispector, in Italia come in altri paesi europei, curiosamente, non concordano nell’attribuirle una data di nascita: la prima edizione Adelphi di Vicino al cuore selvaggio, romanzo pubblicato in Brasile nel 1943, recava addirittura la data del 1925 (così come le edizioni Feltrinelli, che in quegli stessi anni pubblicò diversi libri di Lispector), ciò che dovette far sobbalzare il lettore, chiamato a confrontarsi con il misterioso capolavoro di una adolescente. Oggi sembra accertato che l’apparizione – come avrebbe detto Marcel Schwob – di Clarice Lispector sia datata 1920, e tuttavia questo «invecchiamento» non appanna l’aura di leggenda che accompagna la scrittrice brasiliana: il tour de force stilistico al quale si sottopose per raccontare la vita di Joana, per frammenti e senza una vera e propria trama coerente, concepito a diciassette anni, oppure a ventidue, desta comunque meraviglia.

Legami con l’esordio
Nel placido furore dei suoi vent’anni Lispector pubblicò anche un romanzo, Il lampadario, rimasto fino a oggi inedito in Italia e ora tradotto da Virginia Caporali e Roberto Francavilla per Adelphi (pp. 282, € 19,00). Anch’esso interamente dedicato al racconto di una donna, Virgínia, mostra evidenti legami, non solo linguistici, con il libro d’esordio. Diverso è invece lo sguardo che, contrariamente a quanto avveniva in Vicino al cuore selvaggio, qui si rivolge anche all’esterno, dispiegandosi a volte in descrizioni, enumerazioni di oggetti, di percezioni di colori, di suoni, mentre alcuni tra i personaggi che ruotano intorno alla protagonista rinunciano a restare sfocati: soprattutto il fratello di Virgínia, Daniel, verso il quale la sorella nutre un amore incondizionato, il suo vero centro emotivo. Quello di Virgínia per Daniel è un affetto costruito nell’infanzia, e quindi inscindibile dalla segretezza dei giochi infantili: nell’incipit, la donna si consacra a quel segreto come a ciò «che la aveva illuminata contro il mondo e le aveva dato intimo potere».

I due fratelli bambini
Dei tre blocchi narrativi, il primo – dotato di un ritmo più tradizionalmente romanzesco – è forse anche il più riuscito: guidato dal flusso di coscienza di Virgínia, il racconto segue i due fratelli bambini, in una sequenza narrativa sovrabbondante di elementi simbolici: un cappello perduto da qualcuno nel fiume, visione alla quale i bambini attribuiscono una valenza mortuaria; la fondazione di una Società delle Ombre, dedita a scopi imprecisati sotto il controllo dittatoriale di Daniel, che ordina alla sorella, su mandato della Società, di chiudersi in cantina tutto il giorno «a pensare».

I ragazzi vivono nella grande tenuta di famiglia, avvolti da una natura che li isola dal resto del mondo, consumando i loro giochi nelle radure tra gli alberi o lungo il fiume. Poi, un elemento estraneo, un oggetto minaccioso che somiglia – pensa Virgínia – a un ragno di cristallo, irrompe sulla scena incombendo, letteralmente, dall’alto: è il grande lampadario del salone.

Diversamente da quanto accade nel resto della sua opera, qui Lispector sembra concedersi al puro racconto; e tuttavia Il lampadario non è un corpo eccentrico rispetto alla sua bibliografia. E nemmeno è del tutto corretto pensarlo come un’«opera giovanile», visto che come nella sua vita, anche nella scrittura di Lispector la linea del tempo sembra essersi dissolta in una iridescente sincronia. L’autrice accetta di lasciare scorrere Il lampadario sui cardini di una cronologia ordinata, ma il suo nucleo resta comunque «fuori sesto»: è infatti nell’intermittente rapporto con cose e percezioni che Virgínia fa e disfa il manichino del proprio Io, sia da bambina, sia in punto di morte.

Nel testo, la parola «cosa» è ripetuta ossessivamente, a volte tra virgolette, e in un caso in corsivo («le sue cose»). Le cose sono per Virginia un tramite, un medium, ma anche un binario morto, l’inerte scaturigine della vita: attraverso quegli oggetti che vorrebbe vedere vivi, cerca disperatamente una comunicazione con il mondo che a tratti le sembra irraggiungibile, e in altri momenti la sovrasta, fino a travolgerla: «Ammetteva il proprio desiderio di vedere nella lampada spenta e impolverata più che una lampada. Non sapeva di pensare che se avesse visto solo una lampada sarebbe stata di qua da sé stessa e non ne avrebbe posseduto la realtà».

Una devozione alle cose, la sua, che è esasperato «realismo», e alla lunga produce nel testo un effetto allucinatorio. Anche il titolo del romanzo, riletto al termine del libro, sembra lavorare come la didascalia di un quadro di Magritte (che Adelphi utilizzò per la copertina di Vicino al cuore selvaggio): preciso e scabro, eppure straniante, fuori sincrono.

Nel secondo blocco narrativo, Virgína è ormai sposata e conduce un’esistenza immobile «nella città metallica»: la sua è una condizione non troppo dissimile da quella della Joana di Vicino al cuore selvaggio, separata dal suo uomo da un muro invisibile, «felice e perfettamente infelice». Si succedono le cene con gli amici, gli scambi dolorosi con il marito, i momenti ambigui con altri uomini. Tutto è affidato a una colata di inchiostro quasi senza capoversi, che chiede molto a chi legge; ma addentrarsi nelle volute linguistiche allestite da Lispector assicura una alta ricompensa: qui come in altre opere, quello che sembra prodursi è un incantesimo trasformativo che infonde l’illusione di poter accedere da uno spiraglio rivelatore alle stanze di una speciale lucidità.

Nell’ultima parte, la notizia della morte della nonna richiama Virgína alla tenuta, dove la attendono scambi violenti con gli abitanti della casa e con l’amato fratello: capirà, nel corso della sua ultima passeggiata nel bosco, dove sarà significativamente sola, «che il posto dove si è stati felici non è il posto dove si può vivere». Dopo la partenza, in treno, la assale una presa di coscienza quasi epifanica, un sussulto come se ne trovano tanti nelle prose brevi scritte da Lispector negli anni cinquanta: «Ah, il lampadario. Si era scordata di guardare il lampadario».

Ridondanze di significati
Diversamente da quanto accadrà nelle opere successive, qui molto viene detto, e ripetuto, in una ricercata ridondanza anche di significati. Nella densità semantica del Lampadario c’è infatti una qualche premessa di quanto seguirà nella poetica di Lispector: l’impossibilità di comunicarsi al mondo, e il sentirsi allo stesso tempo «fluida» – questo Virgínia, dice di sé – in segreta complicità con il tutto.

Quella sorta di fusione tra il dentro e il fuori, che troverà una sua compiutezza estetica negli esperimenti di Acqua viva e di Un soffio di vita, qui è preannunciata nella tensione vitale della protagonista, interrotta infine da un incidente, che consegnerà il corpo di Virgínia allo squallore di una strada cittadina. Ma un’ultima, insperata trasmigrazione sembra compiersi quando il «soffio di vita» della morente, fluttuando nell’aria, va a posarsi sul cuore di un giovane uomo: un uomo che passava di lì per caso.