Migliaia di persone hanno preso parte ieri alle proteste organizzate ad Amman. Qualche migliaio si è recato davanti all’ambasciata israeliana. Le autorità giordane hanno fortificato il complesso: avevano già fatto sapere che non sarebbero state tollerate azioni di rabbia volte a creare caos nell’ambasciata o altrove.

MIGLIAIA IN STRADA ieri anche in Turchia ed Egitto. Così come in Marocco (che ha normalizzato i rapporti con Israele nel 2020 in cambio del riconoscimento statunitense della sua sovranità sul Sahara occidentale) e in Tunisia, dove in centinaia erano davanti all’ambasciata degli Stati uniti.

Proteste in Sudan, Yemen, Iran, Indonesia, Malesia, India e in tutti i paesi con forte presenza musulmana nelle capitali e le principali città o davanti alle ambasciate statunitensi e israeliane. In Iraq – dove giovedì la base che ospita forze americane e internazionali Ain al-Asad è stata colpita da missili e droni e dove ieri un’altra base Usa nei pressi dell’aeroporto di Baghdad è stata presa di mira – gruppi paramilitari sciiti vicini a Teheran hanno organizzato un sit-in a ridosso del confine giordano.

Il portavoce dell’autorità irachena alla frontiera ha fatto sapere che «l’assembramento si svolge a una certa distanza dalla frontiera che funziona normalmente». Un incontro si è tenuto ieri tra il principe saudita Mohammed bin Salman e il presidente degli Emirati arabi Mohammad bin Zayed Al Nahyan per «superare le differenze su un conflitto che rischia di fagocitare l’intera regione».

È il Libano però il paese maggiormente coinvolto nella guerra Hamas-Israele. Hezbollah e Amal hanno organizzato una raduno a cui hanno partecipato migliaia di persone a Moussaitbeh, periferia sud di Beirut e roccaforte sciita, dopo la preghiera pomeridiana del venerdì.

Ali Ammar, deputato di Hezbollah nel suo discorso ha affermato: «Non siamo neutrali, ma siamo il cuore della battaglia. Per questo che siamo qui, per confermare la nostra vicinanza e solidarietà con i nostri fratelli palestinesi. (…) Ci viene chiesto in questo momento di essere pronti a prendere degli ordini. A Hassan Nasrallah (leader di Hezbollah) diciamo: siamo a tua disposizione».

Ed proprio il silenzio assordante di Nasrallah dall’inizio del conflitto l’elemento più inquietante. Non ha ancora pronunciato un discorso pubblico o rilasciato dichiarazioni, contrariamente alle sue abitudini in circostanze simili. Gli altri leader libanesi, tranne qualche parola di circostanza, non si sono esposti in maniera significativa. Stesso silenzio di Geagea, primo oppositore del blocco Amal/Hezbollah e capo delle Forze Libanesi che nell’ottobre scorso si erano scontrate con gli sciiti in un confitto armato nei pressi di Tayyouneh.

IL MARESCIALLO dell’aviazione britannica Martin Sampson, in visita in Libano, Giordania ed Egitto, ha ieri incontrato il comandante dell’esercito libanese Joseph Aoun e il primo ministro uscente Mikati e ha dichiarato che «il Libano non deve essere coinvolto in un conflitto regionale».

Sono ormai continui i combattimenti alla frontiera a sud tra Hezbollah e l’esercito israeliano. Negli ultimi giorni gli attacchi si sono concentrati nella parte ovest del confine e nelle Fattorie Sheba’a, occupate da Israele nel 1967 e contese da Libano, Siria e Israele; gli altri fronti sono tutt’altro che chiusi. Si sono registrate in questi giorni violazioni dello spazio aereo libanese da parte dell’aviazione israeliana. Si alza ogni giorno la posta da un lato e dall’altro.

Intanto la Middle East Airlane ha annunciato il dimezzamento del servizio e altre compagnie come Lufthansa hanno sospeso i voli. Le ambasciate statunitense, britannica, belga, tedesca, saudita e russa hanno chiesto ai loro cittadini di lasciare il paese. Molte ong e istituzioni accademiche presenti in Libano hanno rimandato a casa in maniera preventiva gli internazionali non essenziali. Tutti sconsigliano gli arrivi.

Nel clima generale di grande incertezza la tensione si tocca con mano. Ed è concreta la paura che il conflitto vada ben oltre il confine libanese a sud.