Tre giorni di arte circense e incontri, per accendere i riflettori sui bambini di strada e sul disagio giovanile. E’ l’obbiettivo di Circomondo, il festival internazionale del circo sociale che si svolgerà a San Gimignano, in provincia di Siena, dal 26 al 28 giugno. Una palestra concreta e simbolica per venti acrobati, giocolieri, clown, equilibristi e trapezisti tra gli undici e i vent’anni, provenienti dalle favelas di Rio de Janeiro, da un campo profughi palestinese a Beirut e da zone e quartieri socialmente a rischio di Kabul, Valencia, Nairobi, Roma e Napoli. Tre giorni di esibizioni circensi, ma anche di mostre, seminari, proiezioni di film-documentari e laboratori per bambini. E sabato, un tavolo di riflessione dedicato alla condizione dei minori profughi in Italia e nel mondo, negli spazi della biblioteca comunale.

Circomondo è organizzato dall’associazione Carretera Central, in collaborazione con l’Arci e con il contributo della chiesa Valdese. Il nome è quello dell’arteria che attraversa Cuba a doppio senso, con una corsia unica per senso di marcia. E Cuba è infatti un fulcro dell’attività di volontariato internazionale. A Santa Fè, in collaborazione con l’associazione Hermanos Saiz, Carretera Central ha organizzato due campi di lavoro per la riqualificazione degli spazi del cinema Oasis e della Casa della cultura, pesantemente danneggiati dagli uragani del 2007.

Dal gennaio del 2012 – quando si è svolta a Siena la prima edizione di Circomondo (oltre 8.000 spettatori) -, l’associazione di cooperazione internazionale ha sviluppato progetti di circo sociale in diversi paesi del sud del mondo. Attualmente, è in corso una raccolta fondi online (crowdfunding) per impiantarne uno ad Haiti, nell’ambito del recupero dei ragazzi di strada: sempre più numerosi nel disastro del post-terremoto, che non trova rimedio. Il progetto si avvale della collaborazione di Distribuzioni dal Basso e Banca etica (info: www.produzionidalbasso.com/project/circomondo-festival). Chi vorrà contribuire, avrà in cambio un naso da clown rosso fiammante: lo stesso esibito da artisti e operatori durante la conferenza stampa di presentazione, che si è svolga a Roma nei locali della libreria Fandango.

Adriano Scarpetti, presidente di Carretera Central, ha spiegato lo spirito del suo lavoro: «La disciplina circense – ha detto – dà dignità alla relazione mente-corpo e per questo è centrale nel recupero dei minori in difficoltà. Allestire un luogo in cui viene rappresentata la bellezza, significa offrire ai ragazzi di strada una seconda occasione».
In Brasile, la rete di Circomondo aiuta circa 10.000 bambini, adolescenti e giovani. In Afghanistan ha lavorato con oltre 2 milioni e mezzo di minori. «Quest’anno – spiega ancora Scarpetti – discuteremo dei profughi, molti dei quali sono minori che scappano da situazioni di guerra o di povertà estrema e che chiedono risposte concrete».

Circomondo indica apertamente che «la cultura è un’opportunità di trasformazione sociale, un modo per riappropriarci dell’umanità che ci appartiene», dice Carolina Taddei, assessore alla cultura a San Gimignano. E per dare un segnale, il comune ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria ai minori figli di migranti: «Non si deve guardare ai bambini con atteggiamento pietistico, ma rivolgersi a loro in quanto soggetti attivi – aggiunge Taddei – e insegnare ai nostri figli che realizzare un progetto di vita è qualcosa di più che aprire un negozio per turisti danarosi».
Dal sud del mondo a quello dietro casa. Le rotte del circo sociale passano per Roma, dov’è attivo quello di Torpignattara (Istituto Ludovico Pavoni), che coinvolge bambini ipercinetici, iperattivi e diversabili. A Napoli, nel quartiere Barra, agisce invece la cooperativa sociale Il tappeto di Iqbal. Un lavoro – spiega il vicepresidente Marco Riccio, – che funziona come la struttura metallica che sostiene il telone del circo: «a raggiera e per formare altri raggi».

Uno di quei raggi è sicuramente l’atleta ventenne Antonio Alberto Bosso, oggi istruttore di parkour di fama nazionale, che racconta al manifesto la sua storia: «Prima di avvicinarmi al circo – dice – vivevo la strada, quasi tutta la mia famiglia è stata in galera, mio padre è ancora in carcere a Poggio Reale. Intorno avevo solo amici tossici o altri che facevano i figli da giovanissimi e non riuscivano a mantenerli. Allora mi sono allontanato dal quartiere». Barra, che conta 40.000 abitanti, «ha il tasso di giovani più alto di tutte le altre municipalità e anche quello dell’abbandono scolastico e del lavoro minorile». Da qui il nome della cooperativa, che richiama la storia di Iqbal Masih, il bambino pachistano, operaio e sindacalista, morto a 12 anni nel 1995 e diventato un simbolo della lotta contro il lavoro infantile.

Anche Antonio oggi ha chiaro che la povertà e il disagio non sono un destino, ma derivano dalle profonde storture del sistema che le produce, e si possono rimuovere con l’impegno e l’esempio. Sa anche che «la criminalità è un effetto e non una causa» e che per combatterla non servono altre maschere e retoriche svianti. Ma, finite le medie, dopo aver lasciato la scuola, voleva solo fuggire. «Ho lasciato Barra – dice ancora – quando ho cominciato a frequentare i ragazzi che facevano parkour. All’inizio non mi volevano, sia perché ero un po’ su di peso, sia perché ero considerato un delinquente. Poi, però, quando hanno visto che mi allenavo da solo e che sono diventato bravo, mi hanno avvicinato e sono entrato nella comunità». Finché, un giorno, gli arriva un messaggio Facebook: quello di Giovanni Savino, presidente del Tappeto di Iqbal. «Cercava acrobati per un carnevale sociale. Quando gli ho detto che ero di Barra, dove si trova la cooperativa, mi ha detto di tornare nel mio quartiere, per seminare lì quel che avevo imparato. E così ho fatto. Sono tornato, mi sono innamorato della cooperativa, ora ci lavoro, faccio lavoro nel quartiere».

Il carcere e la famiglia? «Nessuno – dice ancora Antonio – è portato per natura a delinquere. Sono le condizioni materiali che ce lo inducono: l’assenza di lavoro, di prospettive. E poi diventa una catena. Io sono andato a trovare i miei in tutti i carceri d’Italia. Facevamo lunghe code ai colloqui, ogni settimana le stesse cose, come un gregge. Mio padre avrebbe voluto indirizzarmi verso un’altra strada, ma non ha fatto in tempo, perché non c’era mai. Così ho dovuto prendere io le redini della mia vita. Ho camminato sui trampoli, cercando un equilibrio, ho camminato sui muri… Questo è stato il mio punto di forza. E, piano piano, mi sto ricostruendo. In fondo, se ho imparato a vivere la strada in modo diverso, se ho questa forza, la devo a lui».

Ma a Circomondo, il maestro è lui, Emmanuel Gallot Lavallée. Asciutto e sorridente, porta la maglietta al contrario, funambolo di parole e gesti. I suoi libri – tra questi Quando sarò grande sarò piccolo o Lo zen del clown – attingono a Beckett e a Queneau, per volgere in riso l’angoscia dell’essere gettato nel mondo. «Dobbiamo accettare di vivere con la nostra fragilità – dice al manifesto – cercare il divino nell’incompiuto, e nel buio la nostra vocazione, riconoscerci come specie e andare avanti con le mani aperte, come esseri umani e non come cinghiali».

Con questo spirito, Lavallée, francese originario della Normandia, ha fondato l’Accademia internazionale di teatro, dove insegna l’arte del clown: ai bambini di strada, ma anche a docenti e professionisti: «Vengono – dice – molti medici. Perché un clown non deve solo far ridere, ma anche far riflettere. La sua qualità principale è l’empatia. E cosa sarebbe un medico senza empatia?» Fare il clown aiuta a «sapere di non sapere. L’attore diventa clown attraverso l’accettazione della propria fragilità. Siamo qui non per possedere, ma per riparare il vaso rotto del mondo. Così, nel mio lavoro con i ragazzi, sono costantemente spinto ad abbandonare il personaggio, per trasformarmi nell’ultimo della classe. Quando i miei alunni non capiscono dico: ma è bellissimo, spiegatemi come avete fatto a non capire».
Lo zen del clown. Con le pantofole «che dondolano appese alle orecchie».