Oggi i negoziatori cinesi arriveranno a Washington per l’ennesimo round negoziale, il nono, in cerca di un accordo sulla vicenda dei dazi che ormai da mesi vede contrapposti Cina e Stati uniti. Quello cui abbiamo assistito è stato un percorso ondivago, non privo di grandi incertezze e momenti di tensione, ma nelle ultime ore sembra prevalere un cauto ottimismo che porta a credere – specie alla parte americana – si possa raggiungere un vero e proprio compromesso entro fine aprile.

La chiave della svolta potrebbe essere la disponibilità cinese a rivedere alcuni aspetti della sua controversa legge sulla cyber-sicurezza entrata in vigore il primo giugno 2017. Secondo il Wall Street Journal, Pechino sarebbe pronta a ovviare ad alcune «durezze» del procedimento, alleggerendole nei confronti delle grandi aziende americane e garantendo così quella reciprocità tanto richiesta da Washington.

In che modo non è chiarito, ma secondo una fonte americana «i funzionari cinesi hanno mostrato la volontà di discutere su questioni che in precedenza erano considerate off-limits». Questa eventuale mossa andrebbe a sommarsi ad altre concessioni che Pechino ha fatto di recente, come l’aumento delle importazioni di carne suina e di soia dagli Usa.

È evidente, però, che se sul piatto c’è la legge che regola il mondo dei Big Data in Cina: arrivare a un punto di incontro potrebbe dimostrarsi piuttosto complicato, considerando come il mercato cinese sia ultra protettivo nei confronti delle tante start-up e «giganti» nazionali.

È proprio il mercato interno, spesso, a potenziare a tal punto le compagnie cinesi da permettergli di affrontare poi con grande baldanzosità i palcoscenici internazionali.

Gli stessi meccanismi di censura previsti per le attività on line, finiscono poi per fomentare la nascita di nuove aziende, sempre più specializzate nel trattamento di flussi di informazioni e ormai in grado di mettere insieme tutto quanto esce dai laboratori di Intelligenza artificiale dei polmoni hi-tech nazionali.

Tutto quanto ruota attorno alla più grande ricchezza che in questo momento ogni azienda tecnologica ha più a cuore, i dati, a confermare come la guerra dei dazi nasconda in realtà la corsa alla leadership tecnologica mondiale.

Proprio in questi giorni, China Mobile ha annunciato che i testi previsti per la prima linea di metropolitana al mondo equipaggiata con reti 5G sono stati superati. La città dove entrerà in azione è Chengdu, nel Sichuan, già nota per l’uso intensivo del trasporto pubblico elettrico. Un risultato con cui la Cina intende ribadire il primato nel 5G, altro tema delicato e conteso con Washington.

Specie durante il periodo di presidenza di Xi Jinping, per tutto quanto riguarda Big Data e sicurezza, la Cina ha più volte affermato la volontà di voler difendere la «sovranità digitale»: i dati prodotti nel paese devono rimanere in casa, anche se derivanti dalle attività di imprese straniere.

La legge sulla cybersicurezza, infatti, è parte di un piano complessivo cinese e, tra le specifiche meno apprezzate dagli americani (e non solo), obbliga tutte le aziende che operano in Cina a mantenere i dati su server locali. Di particolare interesse per le aziende straniere, come riporta il Wall Street Journal, «è l’obbligo per gli operatori di sottoporsi a rigorose revisioni della sicurezza» per garantire che i sistemi di dati siano «sicuri e controllabili».

Amazon è stata la prima vittima: dopo l’entrata in vigore della legge ha deciso di vendere a un’azienda locale il proprio servizio cloud in Cina.

La finalità enunciata da Pechino è garantire la sicurezza nazionale e l’interesse pubblico, ma naturalmente con il provvedimento cerca di garantirsi la possibilità di accedere a quei dati che dovrebbero essere nella disponibilità anche delle sue forze di sicurezza, se richiesto.

Di conseguenza, «le imprese statunitensi che operano in Cina, siano società tecnologiche americane, banche o società energetiche, devono mantenere i dati delle loro reti in Cina e in molti casi rifornirsi di server, router e altre apparecchiature e prodotti dai fornitori cinesi». Sono previste anche conseguenze per le aziende che dovessero violare queste leggi, come ad esempio la rimozione delle licenze e dei permessi ad operare in Cina.

In realtà, già prima che la legge diventasse effettiva, le aziende straniere dovevano accettare tutta una serie di vincoli in materia di cyber-sicurezza imposti dal mastodontico apparato censorio cinese, puntando anche a un altro fattore: la Cina non è solo interessata ai dati che le aziende straniere raccolgono, ma è anche interessata a far sì che alcuni suoi dati «sensibili» non possano essere visti da altri.

La legge ha creato malumori non solo negli Usa, ma anche in Europa e a parere dei negoziatori americani questo potrebbe essere un punto di forza nell’eventuale contrattazione. I cinesi, dal canto loro, hanno spesso dimostrato di sapere escogitare soluzioni «creative» a fronte di stalli improvvisi (come accadde quando il governo di Pechino consigliò a Google di trasferirsi a Hong Kong, ponendo fine a un braccio di ferro sgradito al partito comunista). Se l’ottimismo americano è reale e davvero fondato, significa che Pechino ha già messo sul piatto qualcosa.