Aveva avuto enorme ripercussione l’appello rivolto da Sebastião Salgado al governo, al Congresso e alla Corte suprema del Brasile per scongiurare il propagarsi dei contagi tra le comunità indigene a opera di minatori, taglialegna, allevatori di bestiame e ora anche leader evangelici.

«Se ciò avvenisse, sarebbe un genocidio», aveva denunciato il fotografo nel suo manifesto, firmato da attori, artisti, politici e scienziati di tutto il pianeta.

Quello che Salgado non poteva immaginare è che la Funai (Fondazione nazionale dell’Indio), l’organo del governo incaricato della protezione dei popoli indigeni, per vendetta potesse staccare dalle pareti della sua sede i 15 quadri donati dal fotografo e proporre di metterli all’asta.

Con un preciso messaggio: Salgado si lamenta che non stanno arrivando fondi agli indigeni? Allora venda questi quadri – foto che ritraggono l’etnia Korubo do Coari, nella Vale do Javari – e mandi loro il ricavato.

«Trovo tutto ciò di un’enorme mediocrità e tristezza», ha commentato il fotografo: «Questa è la maggiore dimostrazione dello smantellamento di grandi istituzioni» come la Funai e l’Ibama, la cui creazione «ha richiesto decenni».

Che sotto il governo Bolsonaro dell’antica Funai non resti più traccia, lo dimostra il suo recente scontro con il Cimi, il Consiglio indigenista missionario legato alla Conferenza dei vescovi. Al centro del conflitto, l’ultimo di una serie interminabile di affondi contro i popoli originari: l’Istruzione normativa n.9 del 16 aprile che autorizza di fatto la concessione dei titoli di proprietà agli invasori di terre indigene, persino quelle la cui demarcazione è in fase avanzata.

È «inaccettabile», aveva reagito il Cimi, che in piena pandemia, proprio nel momento in cui le comunità originarie – con 214 casi di contagio confermati e 16 decessi – prendono l’iniziativa di chiudere e di proteggere i propri territori, la Funai adotti un provvedimento che «va in direzione opposta al suo dovere istituzionale di proteggere i loro diritti».

Contro l’Istruzione normativa, come pure contro la famigerata Misura provvisoria n. 910, diretta a legalizzare l’accaparramento di 65 milioni di ettari di terre pubbliche in Amazzonia da parte dell’agribusiness, del settore minerario e delle imprese di costruzioni, si erano già scagliati gli stessi popoli indigeni nel loro tradizionale Acampamento Terra Livre, quest’anno in versione virtuale a causa della pandemia, svoltosi dal 27 al 30 aprile.

Per tutta risposta la Funai ha emesso una nota in cui attacca a testa bassa il Cimi, i governi del Pt, le ong e «i gruppi religiosi legati alla Teologia della liberazione di matrice marxista», esaltando la rottura rappresentata dalla vittoria di Bolsonaro nei confronti di «20 anni di amministrazione socialista del governo federale» e soprattutto di una politica indigenista nel segno di un «assistenzialismo servile» e di «paternalismo esplicito».

Una politica a cui, prosegue la nota, si ricondurrebbe la situazione di povertà, dipendenza e esclusione attualmente sofferta dai popoli originari.

Durissima la risposta delle organizzazioni indigene, ambientaliste e di difesa dei diritti umani che, in un comunicato, denunciano gli attacchi sferrati dal «governo fascista» di Bolsonaro a tutto l’impianto della Costituzione in materia indigena e la strumentalizzazione politica sofferta dalla Funai, attraverso la nomina di un presidente, Marcelo Xavier, «che ha operato a fianco e al servizio» della lobby ruralista, trasformando l’organismo governativo «in una mera succursale degli interessi del latifondo, dell’agribusiness e delle imprese minerarie».

Interessi a cui si deve anche l’incessante aumento della deforestazione, che, nei primi quattro mesi del 2020, registra una crescita del 59%, rispetto allo stesso periodo del 2019, un totale di altri 1.202 km quadrati di foresta andati perduti.