Professoressa Chiara Saraceno per l’Istat le conseguenze sociali e economiche innescate dalla pandemia del Covid hanno creato un milione di poveri in più. Chi è stato colpito?
Sono dati tragici, ma non sorprendenti. Cosa ci aspettavano che succedesse in questi mesi con tutte le persone che hanno perso il lavoro, quindi una fonte di reddito, e tra quelle che non hanno perso il lavoro ma il reddito con la cassa integrazione? Molti sono finiti in povertà assoluta. Il dato preoccupante i è che è aumentata la povertà assoluta nelle famiglie di lavoratori. Formalmente non sono disoccupati, saranno in cassa integrazione, hanno la partita Iva, o sono persone che non si dichiarano in cerca di occupazione. La loro occupazione è stata sospesa o è ridotta. Questo significa che l’impoverimento assoluto riguarda una fetta ampia di famiglie che fino all’anno scorso non erano sulla soglia della povertà. Oltre agli operai o agli impiegati, è impressionante l’aumento della povertà nel lavoro autonomo. La crisi ha colpito in maniera particolare qui.

Già nella crisi del 2008 erano aumentate le famiglie dei lavoratori poveri, La nuova crisi li colpisce ancora?
Sì, e questa non è solo una caratteristica italiana. Si sono persi molti redditi principali nelle famiglie, ma anche molti secondi redditi, quelli che di solito permettono di mantenere il nucleo sopra la soglia della povertà. Sono le donne ad avere il secondo reddito, sono loro a fare da cuscinetto di riserva. La crisi le colpisce molto duramente. In questo dramma si conferma anche la maggiore vulnerabilità delle famiglie con figli minori. In tutto questo aumenta infatti la povertà assoluta dei bambini e degli adolescenti. Proprio quelli che oggi sono in didattica a distanza in una scuola interrotta e intermittente a causa dell’epidemia. La Dad danneggia tutti, psicologicamente e relazionalmente, nell’opportunità di apprendimento e sviluppo delle capacità. In più i ragazzi che vivono nelle famiglie colpite dalla crisi soffrono per le condizioni abitative difficili, per i genitori che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, è impossibile. Mi auguro che si pensi a loro, evitando che restino in casa. Si facciano attività di accompagnamento in luoghi sicuri dove possono trovare sostegno.

Il ministro del lavoro Orlando ha annunciato la sua partecipazione al comitato di valutazione del reddito di cittadinanza. Ritiene necessario che sia ampliato e in che modo?
Il comitato non c’è ancora e non so chi altro dovrebbe farne parte. Per il reddito di cittadinanza sono aumentate le domande. Oggi il problema non è ampliare l’ammontare, ma rivederne gli obiettivi. È stato pensato come una misura attivazione al lavoro, ma una politica di reddito minimo non dovrebbe essere un politica del lavoro in nessun paese al mondo. Un «reddito» deve garantire il diritto ai consumi essenziali, anche perché molti dei suoi beneficiari non sono in grado di lavorare. Per come è stato pensato, il reddito di cittadinanza, difficilmente intercetta i lavoratori working poor perché hanno una casa di proprietà o risparmi. Oltre alla scala di equivalenza, va rivisto il criterio dell’Isee. Per avere il beneficio bisogna portare la dichiarazione dei redditi di due anni prima. Ma questo è sbagliato sempre. La valutazione della situazione economica va fatta a partire dal reddito corrente, e deve essere valida per tutti, non solo per alcune categorie. Pensi alla crisi attuale: se chi ha chiuso bar e ristoranti, o ha perso il fatturato da partita Iva, portasse la dichiarazione dell’anno precedente sarebbe escluso. L’anno scorso è stato creato il «reddito di emergenza» (Rem). È una follia. Avevamo almeno una misura unica, eppure ne hanno inventata un’altra. Se il «reddito» non intercetta chi ha bisogno significa che non funziona, non che va fatta un’altra misura! Poi vanno fatti i controlli. Ma bisogna essere realisti. Meno male che un reddito esiste. Se non ci fosse stato, sarebbe stato peggio. Ora va corretto.

Eppure il reddito di cittadinanza è legato alle politiche attive del lavoro. Lo è nel piano di ripresa europeo e lo è nella legge sul reddito di cittadinanza. Questa è la soluzione per povertà e disoccupazione?
Abbiamo visto che il lavoro non necessariamente protegge dalla povertà, un giorno si dovrà anche lavorare sui salari e sulla sicurezza del lavoro, oltre che sul rafforzamento dell’occupazione delle donne. Da qualche decina d’anni dico che la migliore forma di protezione è che le donne lavorino. Tra i percettori del reddito c’è una quota che può fare lavori parziali o non è in grado di lavorare per motivi diversi: malattia, età avanzata. In questi casi le politiche attive del lavoro non servono a molto. Lo sbocco occupazionale è l’ideale per una quota dei beneficiari del reddito di cittadinanza che è in grado di lavorare, perché ha una qualifica o la può prendere. Il reddito di cittadinanza va anche a famiglie dove i membri lavorano già, anche se non hanno un reddito di lavoro sufficiente. In questi casi si può creare un’attivazione, finché si può, ma bisogna pensare a seri corsi di formazione che mettano in grado di intercettare le occupazioni che si vorrebbero creare con il piano europeo di resilienza nel digitale e nell’ambiente. Purtroppo nessuno ci sta pensando. Per chi perde il lavoro ora, non c’è alcuna iniziativa. Si pensa che tutto ricomincerà come prima, ma non sarà così.

Li dove sono state sperimentate, in Inghilterra, Germania o Francia, molti osservatori hanno evidenziato come queste politiche contribuiscano alla cosiddetta trappola della povertà e alla creazione di un mercato di lavori a bassa qualificazione. Si corre lo stesso rischio in Italia?
Certamente, lo vediamo già oggi. Il motivo per cui abbiamo lavoratori poveri è perché ci sono lavori a bassa qualifica e remunerazione e spesso anche intermittenti. Guardi a quello che succede con i rider, nella logistica o nelle pulizie o le badanti. Sono impiegati in di servizi a bassa qualifica pagati molto poco.

È possibile concepire un reddito di base sganciato dalle politiche attive del lavoro?
Sì, oppure agganciato a un lavoro per quelli che possono lavorare, ma che non sia pensato come una politica attiva del lavoro. Quello che succede ora è che chi ha il reddito firma il patto per l’occupazione o di inclusione, ma i suoi familiari e i minori non hanno diritto ad avere servizi. Se i genitori firmano il patto del lavoro non si guarda agli altri bisogni del resto della famiglia. Le sembra una cosa sensata?

Le conseguenze della crisi dureranno anni, ma tra le riforme di cui si parla non c’è quella del Welfare. Oltre al reddito, di quali politiche avrebbe bisogno questo paese per avere un welfare più universale?
Ammortizzatori sociali meno frammentati e un po più universali e omogenei. Mi rendo conto che proteggere lavoro dipendete è diverso da quello autonomo, ma è necessario proteggere entrambi. Oggi abbiamo rapporti di lavoro frammentati, dobbiamo pensare a un sistema di protezione più adeguato rispetto a quello attuale che già diversifica nel lavoro dipendente. È un modello da ripensare. Welfare vuol dire anche infrastrutture sociali dagli asili nido come servizi come pari opportunità per i bambini, a prescindere dal fatto che la madre lavori o no, perché altrimenti diventa un circolo vizioso. Ci vogliono servizi domiciliari per gli anziani fragili, una politica pubblica per la casa meno ghettizzante di quella fatta negli anni Settanta quando sono stati costruiti quartieri che sono diventati ingestibili. E poi sulla sanità dove abbiamo bisogno di molti più servizi di prossimità.

Molto si è detto, e fatto, sull’assegno unico per le famiglie. È una soluzione?
Non c’è mai “la” soluzione. Avevamo un sistema frammentario e inefficiente, l’assegno per il nucleo famigliare per i dipendenti a basso reddito, per il terzo figlio per le famiglie a basso reddito, le detrazioni fiscali, il bonus bebè. Molti poveri non prendono niente perché incapienti o non guadagnano. Non c’era nulla di universale. L’idea di creare uno strumento tendenzialmente universale che valga per tutti e per i figli fino alla maggiore età, mi sembra un atto di civilizzazione. Tutte le ricerche mostrano che i sistemi universali sono efficaci nel contrasto della povertà. Sono contenta che abbiamo deciso di prendere questa strada, un po’ meno sul modo in cui l’hanno presa. Non hanno avuto il coraggio di introdurre un sistema davvero universale, è un sistema misto il cui ammontare dipende dall’Isee famigliare. Questo riduce l’universalismo, anche se dipende come sarà calcolata la variazione dell’assegno universale. Legare l’assegno al reddito familiare produce un effetto di scoraggiamento sul secondo reddito, soprattutto su quelli più bassi, quindi di fatto sulle donne. È un assurdo perché nella presentazione del disegno di legge si parla di incentivazione dell’occupazione femminile. A parte il fatto che potevano non nominarla perché un assegno di questo tipo non ha lo scopo di incentivarla, ma così fatto si rischia di produrre l’opposto. È una decisione paradossale.

***Istat: un milione di poveri in più in un solo anno

La povertà assoluta torna a crescere e tocca il record dal 2005, mentre i consumi sono crollati a un livello mai visto da ventuno anni a questa parte. È la stima preliminare fatta ieri dall’Istat del primo anno della pandemia del Covid: il 2020. Sono i numeri crudi che offrono un’idea di cosa è accaduto, davvero, in questo paese. Eccoli: le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni, 335 mila in più. In totale gli individui censiti in questa condizione sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2019. Gli effetti economici e sociali innescati dalle quarantene intermittenti decise per contenere la diffusione del virus hanno cancellato gli effetti modesti prodotti da un anno di «reddito di cittadinanza» introdotto in Italia nel 2019. Allora in povertà assoluta erano 4,6 milioni di persone, all’incirca mezzo milione in meno rispetto al 2018. Le famiglie più colpite in misura più rilevante sono quelle con un maggior numero di componenti, con un solo genitore, le coppie con un figlio o con due. La presenza di anziani in famiglia – per lo più titolari di almeno una pensione che garantisce entrate regolari – ha ridotto il rischio di rientrare in povertà.

Il contraccolpo colossale prodotto da questo evento su una società già gravemente impoverita e precarizzata ha fatto precipitare tutti gli indicatori a un livello mai visto anche dopo la crisi del 2008, quando la povertà è esplosa. Da allora non ha mai smesso di crescere, tranne per il breve periodo seguito all’introduzione del «reddito». Un simile aumento dimostra come la misura introdotta sia stata parziale e utile solo in minima parte per contenere l’ondata che continuerà a crescere anche nei prossimi anni. Questo dramma ha colpito più il nord del paese dove la crisi economica sta diventando sempre più forte. Qui l’incremento della povertà assoluta riguarda 218 mila famiglie per un totale di 720 mila persone. I più colpiti in assoluto sono i nuclei che vivono con il salario di un operaio, o lavoratori cosiddetti «assimilati». L’incidenza passa dal 10,2 al 13,3%). E tra le partite Iva è un dramma: la crisi ha colpito i lavoratori autonomi (dal 5,2% al 7,6%).

Questa situazione va inquadrata nel contesto di un calo impressionante della spesa per consumi delle famiglie (su cui si basa l’indicatore della «povertà assoluta»). Secondo l’Istat la spesa media mensile è ai livelli del 2000, 2.328 euro, con un calo del 9,1% rispetto al 2019