«È come essere in un limbo, senza sapere esattamente dove ci si trova» racconta Miryam Charles quando la incontriamo a margine del festival. La regista si riferisce alla sensazione di straniamento che vive chi, come lei, è nata in un luogo ma ha le radici in un altro. Il suo primo lungometraggio Cette maison (Questa casa), presentato alla Berlinale nella sezione Forum, si svolge infatti tra il Canada dove Charles è nata e cresciuta, gli Stati Uniti, dove un altro ramo della sua famiglia si è stabilito e Haiti, il «paradiso perduto» che prorompe sullo schermo con la sua natura rigogliosa, il mare placido, i fiori colorati. L’essere persi tuttavia non ha solo una valenza geografica in questo lavoro, ma innanzitutto temporale. In Cette maison lo scorrere lineare del tempo è alterato a causa di un trauma, la morte violenta della giovane cugina della regista. Nei confini poco nitidi delle immagini catturate sulla pellicola in 16mm si perde anche il limite tra realtà e finzione, presente e ricordo; c’è il tentativo disperato di non lasciar andare qualcuno, di rievocarlo, di tenerlo stretto nei meandri della propria mente e nei fotogrammi. Il film di Charles racconta quindi l’elaborazione di due lutti, quello di una persona cara scomparsa e quello di una casa che esiste ormai solo nelle fantasie, ed è in questo luogo sospeso che sgorga dall’interiorità che il gesto cinematografico acquista il suo senso più profondo.

Quanto c’è di personale in «Cette maison»?

Direi quasi tutto. Il punto di partenza è l’uccisione di mia cugina, quando aveva dodici anni, nella sua casa a Bridgeport in Connecticut. Ho unito insieme alcuni ricordi della sua vita, della mia e di sua madre. Anche se attraverso un processo di scrittura e di fiction, il film si basa quindi su un eventi reali.

Nel film emerge un rapporto particolare con la natura e con gli oggetti, potresti spiegarlo?

Le donne della mia famiglia sono quasi ossessionate dai fiori e dalle piante, volevo rendere loro omaggio ricreando in studio questo giardino dove la madre e la figlia si incontrano e parlano. Era anche un modo per connettermi con Haiti pur non trovandomi lì. I miei genitori volevano rimuovere il legame con il loro paese affinché ci potessimo integrare nella società canadese, c’erano però in casa alcuni oggetti che rimandavano ad Haiti e li ho voluti inserire nel film, sono delle statuine di culto e un bidone blu che, una volta riempito di cose – ad esempio vestiti che non si utilizzavano più – veniva spedito sull’isola.

I personaggi ripetono spesso la frase «tutto è possibile qui». Un riferimento al cinema?

Certo, perché effettivamente è così, nel mio film in un certo senso ho fatto rivivere mia cugina, le ho dato un’età adulta che non ha mai vissuto. Cette maison l’ho scritto, girato e montato eppure ogni volta che lo rivedo la mia mente mi inganna, è come se fossi con lei. Quando si vive un evento traumatico tendiamo a dissociarci dalla realtà, ci sono diverse ripetizioni nel film proprio perché dovevo ripercorrere gli eventi, separarli per comprenderli e trovare un senso nuovo, anche se poi il risultato è sempre lo stesso. Credo infatti che il significato della frase cambi, all’inizio ha anche un senso di speranza che diventa poi tragico perché se al cinema tutto è possibile, la pellicola finirà prima o poi e nella realtà le cose stanno diversamente.

Oltre al lutto è centrale il tema della migrazione.

Sì, c’è la questione della costruzione di una nuova identità nel paese in cui ci si stabilisce, cosa che io ad esempio non sono mai riuscita a realizzare pienamente. Ho inserito anche il referendum del 1995 perché se fosse passato i nostri diritti si sarebbero ristretti, eravamo pronti in quel caso a trasferirci negli Stati Uniti. Era importante per me sia perché è la prima volta in cui mi sono sentita veramente straniera, sia perché se fossimo andati via avremmo raggiunto i miei zii e mia cugina, mi sono sempre chiesta se allora le cose sarebbero andate diversamente.

Da cosa deriva la scelta di girare il film in pellicola, in 16mm?

Quando ho iniziato a studiare regia all’università usavamo il 16mm e così ho sempre continuato. Credo poi che girare in pellicola generi un legame più forte con la storia del cinema e le sue origini. Ad Haiti non c’è una grande tradizione cinematografica e così ho pensato in qualche modo che il mio potesse essere un inizio, creare un punto di contatto tra la cultura haitiana e il cinema.