La cosiddetta direttiva «case green» da poco approvata al Parlamento europeo è il punto di arrivo di un lungo percorso, che in Italia ha inizio nel lontano 1976, con una legge, la 373, che per la prima volta – a seguito della crisi petrolifera del 1973 – affrontò il problema dei consumi energetici in edilizia, ponendo le basi per una loro riduzione attraverso regole sull’involucro e sugli impianti.

A QUEL TEMPO NON SI PARLAVA ancora di emissioni di CO2, il problema era la dipendenza dal petrolio. Seguì la legge 10 del 1991, che affrontò in modo più completo il tema dell’efficienza energetica negli edifici e, per la prima volta, dell’uso dell’energia rinnovabile.

Agli inizi del secondo millennio, nel 2002, entra in gioco l’Unione Europea con la prima direttiva sull’efficienza energetica degli edifici, in cui si introduce la certificazione energetica. Nel 2010 la direttiva viene aggiornata, e si impone, fra l’altro, che «entro il 31 dicembre 2020 tutti gli edifici di nuova costruzione siano edifici a energia quasi zero», cioè energeticamente efficienti ed alimentati quasi esclusivamente con fonti rinnovabili.

Dunque la nuova direttiva europea sull’efficienza energetica degli edifici, ribattezzata dai media direttiva «case green», non è qualcosa piovuto dal cielo inaspettatamente, ma la logica tappa di un percorso che ha come traguardo un parco edilizio a emissioni zero nel 2050.

Eppure poco si è fatto finora (con l’esclusione del superbonus, con tutte le sue limitazioni ed errori) malgrado fosse ben noto a chi governa che circa il 65% del nostro parco edilizio residenziale ha più di 50 anni ed è messo molto male come efficienza energetica e che gli edifici residenziali italiani, residenziali e del terziario, sono responsabili del 44% dei consumi energetici nazionali e del 27%, delle emissioni di CO2.

TUTTO CIÒ IN UN CONTESTO di crescente povertà energetica che affligge circa due milioni di famiglie, le quali hanno difficoltà a pagare le bollette del gas e dell’elettricità, e soffrono il freddo.

CON QUESTE PREMESSE CI SI SAREBBE aspettato che la direttiva «case green» fosse accolta a braccia aperte, dato che si prefigge una decisa azione volta a ridurre i consumi energetici negli edifici e alla eliminazione delle fonti fossili attraverso l’uso esclusivo delle fonti rinnovabili, con l’effetto di ridurre la povertà energetica, di avvantaggiare la salute e il benessere dei cittadini grazie alla eliminazione delle quota di polveri sottili causate dalla combustione del gas nelle caldaie e a ridurre la dipendenza dai paesi produttori di combustibili fossili. In più le opere di ristrutturazione energetica generano attività economiche destinate prevalentemente alle piccole e medie imprese, con risvolti altamente positivi per l’occupazione. Cosa si può volere di più?

La redazione consiglia:
L’insostenibile pesantezza del fast fashion

INVECE I RAPPRESENTANTI italiani del centro-destra nel parlamento europeo si sono opposti alla direttiva fin dall’inizio e hanno votato contro persino alla versione finale con obiettivi ridotti, quella approvata, i cui punti salienti sono: 1) taglio del 16% dei consumi di energia primaria dell’intero parco edilizio residenziale entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035; 2) ristrutturazione del 16% degli edifici non residenziali con le peggiori prestazioni entro il 2030 e il 26% entro il 2033; 3) tutti i nuovi edifici dovranno essere a zero emissioni a partire dal 2028. Accordo al ribasso che rende molto difficile raggiungere l’obiettivo finale al 2050.

PERCHÉ IL CENTRO-DESTRA SI OPPONE alla direttiva, malgrado i vantaggi che ne derivano? Il messaggio veicolato con tutti i mezzi è che la direttiva sia una ingiusta prevaricazione per i proprietari di case, una specie di tassa patrimoniale, perché saranno forzati a uscire di tasca un bel gruzzolo, a contrarre mutui con le banche, senza averne niente in cambio. E di questo hanno convinto una buona parte degli italiani.

MA LE COSE NON STANNO COSÌ. Infatti aumentare l’efficienza energetica di un edificio attraverso un maggior isolamento dell’involucro e l’uso di pompe di calore al posto delle caldaie, con in più – dove possibile – la produzione di energia elettrica con pannelli fotovoltaici, comporta una forte riduzione della bolletta energetica, cioè l’investimento si ripaga in un certo numero di anni: è un investimento produttivo, non soldi buttati per la decisione di burocrati eco-maniaci, come falsamente la destra sostiene.

La redazione consiglia:
Ridurre le auto, un obiettivo trasversalmente rimosso

IL PROBLEMA, SEMMAI, sta nella disponibilità del capitale necessario per realizzare i lavori, e per questo la direttiva invita gli stati membri a mettere in atto «misure finanziarie adeguate, comprese sovvenzioni, in particolare quelle destinate alle famiglie vulnerabili, alle famiglie a medio reddito e alle persone che vivono in alloggi di edilizia popolare» e a facilitare «l’accesso a prestiti bancari a prezzi abbordabili, a linee di credito dedicate o a ristrutturazioni interamente finanziate con fondi pubblici».

LO STATO DEVE GARANTIRE, CIOÈ, che il rateo annuale pagato alla banca sia uguale o minore del risparmio annuo ottenuto sulla bolletta grazie agli interventi di efficientamento. In questo modo tutta l’operazione non pesa sul bilancio familiare e la famiglia, dopo qualche anno, finito di pagare il debito, continuerà a scaldarsi spendendo molto meno di oggi.

POSSIBILE CHE CHI REMA CONTRO la direttiva non sappia queste cose? Certo che le sa, ma difende la rendita immobiliare, gli interessi di chi con la rendita immobiliare si arricchisce, che è ora costretto a investire, pena la svalutazione del suo patrimonio, e la cosa non gli piace. Infatti chi affitta i suoi immobili non si preoccupa dei costi di riscaldamento e di elettricità, perché li paga l’affittuario.

PER QUESTO MALIZIOSAMENTE parla di patrimoniale, nascondendo che l’immobile energeticamente più efficiente vale di più, e può essere locato a un prezzo più alto, ripagando così l’investimento. Indubbiamente il transitorio, con immobili rivalutati e altri ancora svalutati può creare qualche problema, ma lo si affronta cercando di risolverlo rispettando l’interesse collettivo, non lottando contro.