L’Italia mette in vendita le sue centrali idroelettriche. Stiamo parlando del 20% della produzione totale di energia elettrica e del 40% di energia rinnovabile, oltre che di asset strategici per la sicurezza energetica nazionale, perché sono questi impianti che in caso di blackout fanno da interruttore per far ripartire il Paese. Stiamo parlando di 4.646 centrali praticamente tutte concentrate sull’arco alpino. Un settore strategico sia da punto di vista energetico che da quello della mitigazione dei due volti della crisi climatica: le alluvioni e la siccità. Eppure siamo, soli in Europa, pronti a cedere questi impianti.

TUTTO È COMINCIATO quando, in ossequio alle regole della concorrenza, l’Unione Europea ha imposto ai Paesi membri di mettere a bando la gestione dei propri impianti idroelettrici e tutti si sono adeguati. Nel 2021 cambiano le cose e l’Europa fa decadere l’obbligo. Immediatamente tutti i Paesi annullano i bandi. Tutti tranne l’Italia.

Il governo allora presieduto da Mario Draghi mantiene il provvedimento e lo mette tra le clausole per ricevere il Pnrr. Ora l’Italia è l’unico Stato dell’Unione che sta avviando delle gare di livello europeo che consentiranno a tutti gli operatori esteri di entrare nel nostro Paese per gestire un asset strategico per la produzione di energia in Italia.

Oggi il governo Meloni ha ereditato la pratica ma, mentre il ministro Fitto procede silenzioso, il ministro Pichetto Fratin già dallo scorso marzo a Rimini ha parlato della necessità di «superare gli ostacoli che stanno a Bruxelles» e di «stare attenti a non farci autogol». Ma da allora poco è cambiato, anzi non è stato approvato il Decreto energia Bis con cui si puntava a riassegnare le concessioni ai concessionari uscenti. Lo spazio di manovra si riduce e il futuro è incerto.

DIGHE E INVASI oltre a fornire energia elettrica hanno un’importante funzione sul territorio in caso di piene o alluvioni perché hanno un a funzione di laminazione impedendo che troppa acqua arrivi nelle aree antropizzate, quindi trattenendo l’acqua per poi rilasciarla gradualmente. Altra qualità delle centrali è la programmabilità della produzione, a differenza del fotovoltaico o dell’eolico che dipendono da sole e vento, accumulando l’acqua si può programmare la produzione quando è strettamente necessario.

GLI IMPIANTI idroelettrici hanno di media 70 anni e la loro manutenzione è molto costosa, per non parlare di quanto costa innovare i macchinari necessari per spostare le grandi masse d’acqua e anche trasformarle in energia elettrica in modo sempre più efficiente. Oggi la tecnologia permette di trasformare in elettricità quasi tutta l’energia cinetica dell’acqua con valori che vanno dal 70% fino a picchi dell’80%. Un’opera dal costo stimato di circa 15 miliardi. Oggi con questa situazione di incertezza nessun imprenditore è disposto a investire senza un orizzonte temporale certo.

Secondo le stime già con il rinnovamento degli impianti anche solo con interventi di manutenzione e piccole sostituzioni si possono guadagnare in pochi anni almeno 5,8 gigawatt di potenza e 4,4 terawattora di energia annua, con oltre un risparmio di 2 milioni di tonnellate di anidride carbonica e la creazione di 2mila posti di lavoro (diretti e indiretti) per l’esecuzione dei lavori.

SECONDO CONFINDUSTRIA, per voce del vicepresidente di Elettricità Futura Giuseppe Argirò, «se aspettiamo l’esperire di tutte le procedure amministrative per la riassegnazione delle concessioni prima di dieci anni non si faranno investimenti. E dato che questi dieci anni saranno fondamentali per la transizione energetica noi chiediamo alle autorità di costruire insieme un normativa, confrontandoci con l’Unione Europea, che permetta il rilancio immediato di questi investimenti».

Rischiamo quindi di tenere praticamente fermi questi impianti per dieci anni per poi ritrovarceli gestiti da fondi di investimento internazionale, e così il governo Meloni potrà dire di aver partecipato ad intaccare la sovranità energetica nazionale.