Durante il XIII Encontro de Mulheres Yanomami, le partecipanti hanno deciso di scrivere una lettera al neo-presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Dal momento della sua elezione, e la promessa di creare il Ministero dei Popoli Indigeni diretto da un indio, sono numerose le sottili pressioni da parte di rappresentanti indigeni, affinché dalle parole si passi ai fatti.

Del resto gli indios brasiliani sanno bene quanto i precedenti governi Pt siano stati complici della creazione del disastro umano e ambientale amazzonico, inasprito a dismisura sia nel post-impeachment (2016-2018) che nel periodo bolsonarista (2018-2022), ma innegabilmente avviato all’epoca di quello che è stato il miracolo economico brasiliano targato Pt.

SI PENSI ALLE PROTESTE della società brasiliana per gli arretramenti del governo di Dilma Rousseff nell’area socio-ambientale con l’approvazione del Còdigo Florestal nel 2012. Riduzione delle Unità di Conservazione, del potere ispettivo di Ibama, violazioni delle licenze ambientali, lentezza nella regolarizzazione dei terreni, aumento della violenza nelle campagne, e un Ministero dell’Ambiente immobile nel contrastare l’avanzata, all’epoca, delle grandi piantagioni di soia.

Per questo se sentire Lula affermare che «la preservazione del bioma brasileiro è prioritaria» può dare speranza, allo stesso tempo fa crescere nelle persone colpite direttamente da questi arretramenti ambientali e dai “successi” estrattivisti, l’urgenza di esigere delle misure effettive capaci di andare oltre gli slogan elettorali.

Alla fine di novembre Davi Kopenawa xamã, portavoce del popolo Yanomami e autore insieme all’antropologo francese Bruce Albert, del libro La caduta del cielo (Nottetempo, 2018 ), invitato a integrare la squadra di transizione del Governo Lula, in un’intervista rilasciata all’antropologa Ana Maria Machado in yanomami aveva dichiarato: «Prima Lula sbagliava. Ora è più vecchio, forse più saggio. Forse ha aperto i suoi pensieri, ma nessuno sa cosa nasconde nel suo cuore. Non voglio che ci inganni di nuovo».

 

Davi Kopenawa (Ap)

 

KOPENAWA CONTINUA rivolgendosi direttamente a Lula: «Quando hai parlato, ti abbiamo ascoltato. Noi indigeni e anche i napëpë (in yanomami i «bianchi», o anche i «nemici», ndr). Non vogliamo essere lasciati nel dolore se stai mentendo. Che sia vero quello che hai detto durante i discorsi pubblici, che se diventassi nuovamente presidente proteggeresti le popolazioni indigene, che soffrono in Brasile. Non voglio che continui a distruggere la foresta che voi bianchi chiamate Amazzonia. Perciò, Lula, questo è ciò che ti chiedo di fare per prima cosa: non iniziare prima a lavorare sulle terre bianche. Per prima cosa, rimuovi i minatori dalla nostra terra».

LE DONNE YANOMAMI chiedono aiuto per porre fine all’attività mineraria illegale nella terra indigena yanomami che ha degradato la terra, colpito gli animali ed esposto particolarmente le donne alla violenza di genere. Lo fanno in modo molto chiaro e diretto: «Lula, noi donne yanomami vogliamo mandarti la nostra parola. Sei molto lontano dalla Terra Indigena Yanomami, ma sappiamo che riceverai le nostre parole e che vorrai ascoltarci».

Non è un cocar na cabeça (copricapo indigeno) a far sentire vicino il presidente eletto. Lula ha vestito la coccarda indigena in alcune occasioni pubbliche, tra queste la morte di Bruno Pereira e Dom Phillips, all’epoca della campagna. Ovviamente il gesto simbolico non può che essere positivo, ma non basta.

La situazione viene descritta considerando le carenze del malgoverno e della amministrazione pubblica criminosa nei confronti dei popoli indigeni. Dalla situazione del caos sanitario, alla chiusura delle scuole e la violenza sulle donne. Denunciano il blocco del funzionamento dei postos de saúde indigena (equivalente alle Asl italiane) e l’esaurimento, causato da Bolsonaro, di tutte le riserve di clorochina utilizzata in caso di malaria, il diffondersi dei casi della malattia e l’assenza di personale medico preparato. Le scuole che non funzionano più. I bambini e i giovani non studiano, le donne vengono rapite e abusate dai garimpeiros (minatori).

Ma si chiede anche che il presidente eletto si faccia carico della terra, degli animali che ci vivono: «La nostra terra sta male, gli occhi dei pesci stanno cambiando, sembra che i loro occhi siano sciolti e anche gli animali sono diversi, magri e malati».

PER QUESTO LE DONNE non chiedono ma affermano: «Adesso che sei stata eletto di nuovo, noi donne yanomami ti diremo cosa vogliamo». E quello che vogliono pone al centro delle domande non tanto gli uomini, o almeno non gli uomini come centro, ma la terra, necessaria perché gli uomini e le donne yanomami possano stare bene. «Vogliamo vivere nella foresta vivi e belli (sic). Vogliamo tornare a vivere in una terra sana, che è la vera foresta yanomami. Vogliamo che i nostri figli continuino a nascere sani e forti. Abbiamo bisogno del tuo aiuto per guarire la foresta e anche gli animali che la abitano. Vogliamo continuare a vivere nella nostra terra, mangiando cibi sani e bevendo acqua pulita».

Fanno seguito una serie di richieste concrete, come quella di rimuovere le macchine: se si mandano via i garimpeiros ma non si rimuovono le macchine, sempre altri ne arriveranno. Richiedono un personale medico che non solo conosca i popoli indigeni, ma che visitino le comunità e che creino un nuovo servizio di salute pubblica dei popoli indigeni («costruito con le condizioni per servirci con dignità». Non solo richiedono la riapertura delle scuole ma vogliono che i giovani possano studiare nella loro terra e nella loro lingua.

LO DICONO CHIARO: «Vogliamo vivere secondo i nostri progetti. E poter accompagnare la cura del nostro territorio. I nostri progetti non causano distruzione e rispettano la nostra conoscenza della foresta».

Se la tendenza eurocentrica è quella di associare alle forme di vita indigene una certa visione romanticizzante, un mondo estraneo alla contemporaneità, a gestione tribale – termine spesso usato per evitare “primitivo”, mantenendone lo stesso valore razzista e arrogante. Le donne Yanomami – in conclusione de loro XIII incontro – dicono invece a Lula che hanno un loro Plano de Gestão Territorial e Ambiental (PGTA) e vogliono che il presidente eletto ne supporti l’attuazione. «Abbiamo le nostre regole e il nostro protocollo di consultazione e vogliamo che tu li rispetti e ti assicuri che vengano rispettati», dicono. Difficile non vedere in tale affermazione la forza di un movimento decoloniale che i dibattiti teorici accademici europei neppure sanno sognare.