Sono ormai un centinaio le navi cargo in attesa di scaricare circa 200.000 container nei porti californiani di Los Angeles e Long Beach, un mega ingorgo che sta diventando emblematico di un “ritorno alla normalità” tutt’altro che normale. Non hanno nulla di “normale” neanche le anomalie che stanno spezzando la catena di approvvigionamento energetico (a partire dal gas naturale) che minacciano fabbriche asiatiche quanto le abitazioni e l’industria agroalimentare europea.
Sembra sempre più che evidente insomma che le difficoltà provocate dalla pandemia alla filiera del consumo globale potrebbero essere qualcosa in più che un semplice singhiozzo organizzativo, segnalando potenzialmente uno scompenso strutturale del sistema di produzione/consumo che rischia di allargarsi concentricamente.

LA CRISI si manifesta negli inspiegabili vuoti sugli scaffali, articoli non disponibili nei carrelli virtuali, anomale inflazioni dei prezzi – dal grano alla benzina, buchi negli inventari industriali. Mancano in vari gangli strategici della produzione economica i beni più disparati: metano, giocattoli, fertilizzanti, microchip. La gravità della situazione è rivelata dal recente proclama del presidente Usa che “commissaria” i porti del Pacifico a lavorare 24 ore al giorno, sette giorni a settimana per smaltire le merci e «salvare il Natale», cioè i consumi di stagione. Quei porti spalancati verso la fabbrica del mondo sono infatti i portali che assicurano il flusso ininterrotto di beni e degli acquisti del black friday.
Ma la macchina mostra segni di inceppamento e da mesi una flotta di gigantesche portacontainer all’ancora nella rada di LA indica una colossale strozzatura nella catena di forniture. Questa è in parte effetto degli squilibri e le chiusure provocate al punto d’origine della filiera produttiva, la frenata cinese e le chiusure forzate delle fabbriche asiatiche dovute agli sbalzi nell’approvvigionamento energetico hanno innescato un effetto a catena sulla logistica modale e la tempistica delle ordinazioni. Anche la grande crisi globale del 2008 fu caratterizzata da forti scompensi alla filiera distributiva; oggi dopo decenni di privatizzazioni galoppanti i mercati sembrano ancora meno resilienti di allora.

ALTRO DATO AGGRAVANTE è la mancanza di manodopera nella catena dei trasporti. In Usa, come già in Gran Bretagna, si stenta a colmare il divario fra bisogno di smistare i beni capillarmente nel mercato e la disponibilità di camionisti. Scompensi simili si registrano nella disponibilità di navi e di container i cui prezzi di leasing sono schizzati alle stelle – le grandi catene della distribuzione e della spedizione (da Walmart a FedEx) hanno preso a noleggiare in proprio le gigantesche navi per cercare di riempire gli scaffali in tempo le la stagione dello shopping. Ma tutto il sistema dipende da una precisa sincronizzazione “intermodale” – nessun singolo intervento nazionale o azienda le promette di poter risolvere la situazione.
La mancanza di autotrasportatori ad esempio è sintomatica di una più ampia penuria di manodopera – anche per una apparente sempre più diffusa reticenza a riprendere impieghi, modalità lavorative e francamente di sfruttamento dopo lo stop e in molti casi il lavoro in remoto. La disoccupazione negli Stati unti si attesta oggi attorno al 5%, ma il dato che risalta è il numero di persone che non partecipano più al mercato del lavoro: la forza lavoro rappresenta attualmente solo il 61% della popolazione civile adulta. Da decenni non era così alto il numero di persone che non lavorano, né cercano lavoro. Per descrivere il fenomeno, decisamente anomalo durante un periodo di ripresa, è stato coniato il termine Great Resignation: da aprile si sono dimessi ogni mese 4 milioni circa di lavoratori americani. Le ragioni delle “grandi dimissioni” sono collegate al rifiuto sempre maggiore di impieghi ad alto stress e poca flessibilità, specie dopo aver sperimentato – durante i lockdown – una dose inedita di quest’ultima caratteristica.
Si registrerebbe insomma una rivalutazione globale da parte della manodopera sulla qualità di vita che prende il sopravvento sul bisogno di lavoro – un “rifiuto del lavoro” (o comunque del tipo di lavoro) che è dato nuovo e imprevisto. E non è forse un caso che il fenomeno sia stato preceduto da decenni di ristagno dei salari mentre Wall Street brindava e la disuguaglianza diventava voragine sociale.

LE “GRANDI DIMISSIONI” sono fenomeno globale che interessa in varie misure Americhe, Asia e Europa. E contribuisce a spostare la forza contrattuale verso i lavoratori come dimostra l’attuale ondata di rivendicazioni sindacali in Usa. Di recente sono scesi in sciopero i lavoratori della John Deere e della Kellog, a Hollywood uno sciopero delle maestranze sembra per il momento evitato in extremis (sempre che la base ratifichi l’accordo sul nuovo contratto), in odore di sciopero anche il lavoratori della grande rete assistenziale/medica Kaiser Permanente. In ogni caso le istanze si incentrano sul rifiuto dei lavoratori di riprendere lo status quo ante – specie della qualità del lavoro – un’insofferenza che nei negoziati avvantaggia i sindacati (anche per i tripli turni al porto di Los Angeles Biden ha dovuto interpellare prima di tutto gli scaricatori), e preoccupa non poco le gerarchie industriali. I lavoratori rivelatisi improvvisamente «essenziali» – e ora «insofferenti» – potranno tradurre questa designazione in benefici concreti?
Allo stesso tempo le masse di consumatori inchiodate sui divani hanno fatto impennare la domanda, con raffiche di click sul bottone “acquista” – un fenomeno che si traduce in un boom di consumo di beni a fonte di un tracollo dei servizi – che erano stati la spina dorsale dell’economia post–industriale.

ORA CHE I PIANI industriali sono appaltati al settore privato e che ogni aspetto della vita è delegato al mercato che ha prodotto piattaforme digitali che agiscono come nazioni sovrane, la crisi evidenziai limiti strutturali del sistema. Le ricadute sociologiche e conseguenze economiche sono ancora da verificare appieno. Si rafforza comunque l’impressione di un momento assai instabile per il capitalismo globalizzato. Vi saranno probabilmente i presupposti per ristabilire un equilibrio funzionale – ma la domanda probabilmente dovrebbe essere se ci si debba spendere per un ritorno a quella normalità, o fare tesoro delle lezioni – o almeno delle domande che sta ponendo la crisi attuale.