Cosa è mancato in queste celebrazioni per l’ottantesimo anniversario dell’Armistizio dell’8 settembre 1943? Come ogni anno le televisioni, i politici e i rappresentanti delle istituzioni hanno ricordato la svolta fondamentale per l’Italia durante la seconda guerra mondiale. C’è stato chi ha rammentato le tragedie della guerra e chi ha messo l’accento sull’invasione tedesca e l’inizio della Resistenza.

ANCORA UNA VOLTA poche parole, pochissime, sono state spese per le colpe del Re e della classe dirigente monarchica, che dopo aver appoggiato il fascismo per vent’anni, non ha saputo far altro che abbandonare il paese alla rappresaglia nazista e alla guerra civile.

Tantomeno si è parlato dei crimini di guerra fascisti, successivi ma soprattutto precedenti a quella data, argomento da sempre avvolto nel pubblico oblio. L’8 settembre segna l’inizio di una nuova stagione di violenza che si consuma nel nostro paese, ma anche la fine di un incubo per tutti coloro che hanno subito le occupazioni italiane nei due decenni precedenti. Ma che ne sappiamo noi? E perché i nostri rappresentanti istituzionali si ostinano a non parlarne, a ignorarli, addirittura a negarne l’esistenza?

ANCHE QUEST’ANNO gli etiopi hanno celebrato da soli il proprio «giorno della memoria» (Yekatit 12), il 19 febbraio, in ricordo della strage di innocenti compiuta dagli italiani ad Addis Abeba dopo il fallito attentato contro Rodolfo Graziani. Ancora una volta in Spagna, Libia, Grecia le violenze fasciste sono state commemorare senza una presenza ufficiale italiana. Per l’ennesima volta nessun rappresentate delle nostre istituzioni ha preso parte alle celebrazioni internazionali che si sono tenute ieri sull’isola di Rab, in Croazia, dove 1.500 donne, vecchi e bambini sono morti di fame e di freddo nel peggiore campo di concentramento fascista in Europa.

Quest’ultimo episodio è davvero esemplare. Si tratta di un crimine colossale e incancellabile, su cui abbiamo a disposizione migliaia di documenti compromettenti («si ammazza troppo poco», scriveva uno dei nostri generali, «campo di concentramento non significa campo di ingrassamento», ironizzava un altro), consumato a due passi dall’Italia, nel cuore dell’Europa, contro popolazioni di territori che oggi fanno parte dell’Unione europea. Eppure anche quest’anno – l’ottantesimo dalla liberazione del campo e dalla fine di quell’incubo – il nostro presidente della Repubblica non ha partecipato alla cerimonia assieme ai suoi omologhi sloveno e croato.

GIÀ A MAGGIO, la presidente slovena Musar aveva previsto che, malgrado l’invito ufficiale, «per Roma i tempi non sono ancora maturi». Ieri, di fronte a migliaia di persone che cantavano Bella ciao, anche molti italiani ma senza nessun rappresentante delle nostre istituzioni, il presidente croato Milanovic ha evidenziato l’assenza. E il presidente dell’associazione partigiani slovena, nel ringraziare l’Anpi giunta a Rab con il presidente Pagliarulo, ha criticato il fatto che «ancora una volta» i rappresentanti dello stato italiano si siano tirati indietro. Ma come è possibile che la nostra democrazia faccia così tanta fatica ad ammettere i crimini commessi, in nome dell’Italia, da quel regime?

Come dimostra il film Comandante che ha aperto pochi giorni fa la Mostra del cinema di Venezia, sembra che l’italianità, l’appartenenza a una comunità nazionale costruita artificialmente (come dimostrano studi storici e sociologici ormai pluridecennali) sia l’unico metro di giudizio che il nostro paese si dà in merito al proprio passato. Italiano è sinonimo di giustizia e civiltà; un italiano può essere solo puro e innocente, vittima e mai carnefice. Come mostra anche l’abuso politico della tragedia delle foibe, dalla quale si vuole forzatamente escludere tutto il contesto che la rende comprensibile, tra cui decenni di violenze portate in quella regione proprio dall’Italia.

Questo approccio identitario e nazionalista al nostro passato più prossimo può essere considerato un colossale passo indietro per la nostra democrazia e per la convivenza civile nel cuore dell’Europa. Si tratta di una scelta politica indotta dall’egemonia mediatica e culturale della destra neofascista, a cui purtroppo finisce per adeguarsi la maggior parte della classe dirigente del nostro paese.

CONTINUARE A IGNORARE, a nascondere, a negare i crimini fascisti significa considerarsi ancora colpevoli; significa di fatto condividerne la logica, i principi, le motivazioni, l’ideologia. E vuol dire anche voler continuare a ragionare e operare con la stessa prospettiva, mettendo l’Italia e gli interessi dei suoi uomini più potenti al di sopra di ogni cosa, addirittura della vita di chi è straniero, diverso, debole, come mostrano le ripetute stragi di migranti nei nostri mari. Salvare un naufrago in mare non è un segno di civiltà italiana ma di umanità. Deportare, internare e lasciare morire di fame intere popolazioni, come fatto dal regime fascista in Libia, Etiopia e Jugoslavia non può essere giustificato dagli interessi supremi della patria. Si tratta di un crimine contro l’umanità e va condannato sempre.

Voltarsi ancora una volta dall’altra parte di fronte a quell’ingiustizia significa mostrare una disumanità che nessun presunto amor di patria può giustificare. Dopo ottant’anni sarebbe ora di capirlo. Perché ciò che celebriamo o condanniamo oggi rappresenta ciò che vogliamo essere, ciò che sogniamo di diventare domani.