Il congelamento dei fondi Erasmus e Horizon Europe è stato un duro colpo per il mondo universitario ungherese. Il provvedimento ha suscitato nuove critiche interne nei confronti del governo che ha dovuto cedere alle condizioni poste dall’Ue.

Andiamo per ordine, però, e vediamo di ricostruire la vicenda. La misura della Commissione europea riguarda tutti i finanziamenti rivolti alle università, per la ricerca e per gli scambi studenteschi. Ora, il problema è che la gran parte delle università ungheresi, ventuno in tutto, è stata privatizzata, a partire da quelle principali attraverso un processo avvenuto negli anni scorsi. Privatizzata nella forma di fondi fiduciari di interesse pubblico in modo da far gestire i medesimi, non unico caso nell’Ungheria attuale, da esponenti governativi e personalità fedeli al premier Orbán e al sistema che fa capo a lui. Come si può facilmente immaginare, tali figure sono state nominate dall’esecutivo a scapito dell’autonomia universitaria per essere impegnate in attività di gestione, appunto, non esattamente trasparenti, secondo le critiche interne ed esterne, eppure in grado di utilizzare i fondi comunitari.

Critiche, si diceva. Risulta che il governo avesse presentato diciassette misure anticorruzione: fra esse quella relativa allo smantellamento dei conflitti di interesse riguardanti i fondi fiduciari, ma non si muoveva niente. A lungo nessun cambiamento su questo fronte, insomma. Il congelamento dei fondi ha quindi provocato una sorta di choc in questo ambito popolato da atenei che hanno vissuto drammaticamente la notizia della misura presa da Bruxelles. Pensiamo ad esempio all’Università Corvinus di Budapest che aveva undici progetti di ricerca finanziati con fondi Ue. Secondo i dati attualmente a disposizione, nel 2020 oltre 22.000 studenti universitari ungheresi hanno partecipato al programma Erasmus con un finanziamento di 40 milioni di euro. Come sappiamo, Erasmus organizza scambi semestrali fra studenti universitari degli stati membri.

È vero che, poi, a fine gennaio, l’esecutivo ha annunciato a sua volta un provvedimento da vedersi come il risultato di un compromesso raggiunto con la Commissione europea per correggere le modalità di gestione dei fondi destinati alle università ungheresi. La misura, resa nota alla fine del mese scorso da Tibor Navracsics, ministro delle Trattative con l’Ue, ha portato a disporre la fuoriuscita di otto ministri del governo ungherese dai consigli di amministrazione delle università privatizzate. Ventuno, abbiamo detto, e nei loro CdA, oltre a dei ministri, tra cui lo stesso Navracsics, anche sottosegretari, consiglieri governativi, deputati, sindaci e uomini d’affari vicini al governo. Erano stati nominati tutti “a vita”. Questa, come si può facilmente comprendere, era una garanzia di asservimento del mondo universitario al potere. L’esecutivo ha promesso dei cambiamenti, è vero. Ma diversi analisti sono scettici e ritengono che la misura da esso presa sia solo una mossa, una cosa di facciata, e che i cambiamenti saranno minimi e coinvolgeranno aspetti di secondo piano, tali da non intaccare la presa governativa sul settore.

Nell’Ungheria di Orbán il problema dell’autonomia universitaria esiste da tempo. È nota la vicenda della CEU (Central European University) ma è soprattutto risaputo l’impegno con il quale il sistema ha fatto del suo meglio per assicurarsi il controllo di stampa, magistratura, economia, scuola, università. Un controllo che, grazie alla propaganda martellante del governo, entra nelle case degli ungheresi, condizionando spesso i comportamenti di questi ultimi. I risultati si vedono mentre non si vede ancora una via d’uscita da questa situazione.