Un’ampia maggioranza di eurodeputati, ieri, ha messo la Commissione con le spalle al muro e chiesto di agire con dei fatti e non limitarsi alle parole contro l’Ungheria (e la Polonia), per il non rispetto dei valori fondamentali della Ue sullo stato di diritto. Al centro della discussione, sempre la legge ungherese di discriminazione delle persone Lgbtq+ e l’equiparazione dell’omosessualità alla pedofilia. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che già aveva definito «una vergogna» le legge ungherese, ieri ha affermato: «Se l’Ungheria non corregge il tiro, la Commissione farà uso dei poteri che le sono conferiti nella sua qualità di guardiana dei Trattati».

RISPONDENDO indirettamente alle contro-accuse di Budapest, che sostiene che la Ue sta usando «due pesi e due misure» e che ancora ieri ha affermato che difenderà la sua legge «con ogni mezzo legittimo», la Commissione ha precisato di difendere l’applicazione dell’articolo 2 dei Trattati e della Carta dei diritti fondamentali «qualunque sia lo stato»: sono state avviate «40 procedure di infrazione legate alla protezione dello stato di diritto e altri valori della Ue». Ma il problema è che la procedura è lunga, ci vuole l’unanimità (Polonia e Ungheria si appoggiano a vicenda e impongono il veto), e ci sono molti ricorsi possibili da parte degli stati sotto accusa. È quello che sta succedendo con la procedura in base all’articolo 7, lanciata nel 2018 contro l’Ungheria e nel 2017 contro la Polonia. La tappa finale – la sospensione del diritto di voto al Consiglio – è lontanissima (e richiede comunque l’unanimità).

NEL DICEMBRE 2020 è stato approvato un regolamento sulla «condizionalità» del versamento dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto. Per Budapest sarebbe un colpo enorme: i finanziamenti europei superano il 3% del pil ungherese. Ma anche qui ci sono dei ricorsi in atto. La Commissione ha però un’altra arma in mano. Il 12 luglio è il termine per la decisione di Bruxelles sul Pnrr dell’Ungheria, che attende 7,2 miliardi dal piano europeo di 750 miliardi di rilancio e di resilienza per uscire dalla crisi del Covid. La Commissione ha deciso di rimandare la decisione – ha due mesi di tempo per rispondere dopo la presentazione del piano nazionale – e di chiedere chiarimenti al governo di Orban su «conflitti di interesse, corruzione, frodi». La Commissione ritiene che il piano nazionale presentato da Budapest non tenga completamente conto delle «raccomandazioni per paese», che non siano stati tradotte in pratica le domande di riforme.

Bruxelles insiste sul rafforzamento delle leggi anti-corruzione, sulla trasparenza. Il commissario Gentiloni ha precisato che ci sono «valutazioni sulla corruzione, sull’indipendenza della magistratura, sulla concorrenza» che condizionano il via libera al piano ungherese. Un diplomatico europeo ha smentito ieri che la sospensione del versamento dei 7,2 miliardi sia già stata decisa: «Non c’è una misura di sospensione, ma stiamo analizzando per vedere se l’Ungheria rispetta il meccanismo di audit». Con una lettera a giugno, già i commissari Thierry Breton (Mercato interno) e Didier Reynders (Giustizia) avevano chiesto chiarimenti al governo Orbán sulla legge che discrimina gli omosessuali. Ora la Commissione ha pronta una seconda lettera, un avviso formale in vista dell’apertura di una nuova procedura di infrazione. Nel frattempo, c’è stato un testo firmato da 17 paesi, in pratica quasi tutti dell’ovest europeo, in difesa dei diritti delle persone Lgbtq+, poi le forti tensioni e la messa sotto accusa della legge ungherese all’ultimo Consiglio europeo, il 24 giugno: «Non rispetta i nostri valori», hanno insistito Macron e Draghi, mentre il primo ministro olandese Mark Rutte ha invitato Orbán ad andarsene dalla Ue se non ne accetta i fondamenti.

LA «CONDIZIONALITÀ» tra finanziamenti e rispetto dello stato di diritto ha fatto reagire Viktor Orbán e l’estrema destra europea, dove molti partiti hanno appena firmato un testo sovranista. In Italia si è distinta Giorgia Meloni nell’attacco a Bruxelles. Orbán accusa la Ue di «usare» il diritto europeo per combattere «battaglie ideologiche» e la paragona all’Urss e al comunismo.

QUESTO SCONTRO sta mettendo in imbarazzo la presidenza slovena. Ieri all’Europarlamento la ministra degli Esteri Anze Logar ha ammesso che la legge ungherese è in contraddizione con i Trattati. Ma il giorno prima il primo ministro Janez Jansa aveva rifiutato di prendere posizione sul futuro del suo partito, l’Sds, che per il momento è ancora nel Ppe ma che potrebbe seguire le orme della Fidesz di Orbán (ora nel limbo del gruppo misto) nelle manovre per formare un forte gruppo di estrema destra sovranista.