È stata la celebrazione della «vittoria della democrazia» quella che si è svolta ieri a un anno esatto dall’invasione delle sedi del Parlamento, della Corte suprema e del Planalto a Brasilia. E per l’occasione sulla facciata delle due torri del Congresso è stata proiettata l’immagine della bandiera del Brasile con la scritta «la democrazia ci unisce». Così sembrerebbe, in effetti: secondo il sondaggio Genial/Quaest di domenica, sarebbero nove brasiliani su dieci a condannare gli atti golpisti dell’8 gennaio 2023.

Che la democrazia sia uscita rafforzata da quel tentativo di colpo di stato non è però opinione condivisa. Non solo perché quella democrazia sembra ancora incapace di liberarsi dalle incrostazioni del passato coloniale e dall’eredità della dittatura militare – i cui difensori, al contrario, hanno rafforzato la loro presenza all’interno del Congresso -, ma anche perché i veri responsabili dell’attacco alle sedi dei tre poteri sono ancora tutti in libertà: militari, parlamentari, imprenditori. I soliti sospetti, insomma, delle classi dominanti.

OLTRE NATURALMENTE a lui, l’ex presidente Bolsonaro. Lo stesso che aveva cercato di far passare tra i suoi elettori il messaggio che il potere giudiziario stesse remando contro il suo governo, che aveva sollecitato la partecipazione delle forze armate nella verifica della regolarità del voto, che aveva più volte e senza prove – persino di fronte agli ambasciatori stranieri – messo in discussione la sicurezza del sistema elettronico e che infine si era rifiutato di riconoscere la propria sconfitta mandando così un segnale ben preciso ai suoi sostenitori. Lo stesso, soprattutto, che, stando alla testimonianza resa alla giustizia dal suo aiutante di campo Mauro Cid, si era consultato con i militari sulla maniera migliore per eseguire un colpo di stato.

«C’è un responsabile diretto» dietro il golpe, ha non a caso dichiarato Lula in un’intervista al quotidiano on-line Metrópoles riferendosi a Bolsonaro, accusato di aver pianificato il colpo di stato e di essersi poi «codardamente nascosto» scappando dal paese prima del suo insediamento. Ed è quanto ha sostenuto anche il decano del Supremo tribunale federale Gilmar Mendes, definendo «inequivocabile» la «responsabilità politica» dell’ex presidente: se i militari si sono mostrati tanto accomodanti con i golpisti è perché avevano ricevuto «un qualche incoraggiamento da parte della stessa presidenza della Repubblica».
Il rischio che sia lui che gli altri responsabili possano farla franca – ponendo così le condizioni per un nuovo tentativo golpista in un futuro prossimo – è però tutt’altro che remoto.

SE IERI LA CORTE suprema ha emesso altri 47 mandati giudiziari contro finanziatori e sostenitori degli atti dell’8 gennaio, al momento sono state condannate, a pene che variano dai 10 ai 17 anni, appena 25 persone, mentre delle oltre duemila arrestate durante l’invasione delle sedi dei tre poteri solo 66 restano in carcere: a tutte le altre, al posto della prigione, sono state applicate misure come l’uso del braccialetto elettronico, il divieto di uscire dal paese, la revoca del passaporto.
«È solo una questione di tempo», ha tuttavia voluto rassicurare il presidente, promettendo giustizia «di fatto e di diritto» ed esprimendo la convinzione «che questo paese attraverserà tutto il XXI secolo senza più colpi di stato».

Ed è non a caso sotto il titolo «Democracia Inabalada», cioè salda, sicura, inattaccabile, che è stata organizzata ieri (nel momento in cui scriviamo si sta ancora svolgendo) una cerimonia nel Salão negro del Congresso alla presenza, oltre che di Lula, del presidente della Corte suprema Luís Roberto Barroso, di quello del Senato Rodrigo Pacheco, di ministri, parlamentari, governatori, sindaci e molte altre personalità della società civile.

DI «INABALADO», però, non sembra esserci molto, al di là delle odi alla democrazia: di fronte all’intensa polarizzazione politica, al sempre latente scontro tra i poteri dello stato e all’ancora molto diffusa pretesa dei militari che spetti a loro intervenire, in caso di conflitto tra le istituzioni, per riportare l’ordine nel paese, le minacce alla democrazia appaiono tutt’altro che scongiurate.