A tratti, la determinazione del suo sguardo è tradita da una patina di emozione. Perché quella che sta raccontando, e che ha narrato con grande forza in Non lasciare che ci uccidano (traduzione e cura di Marco Clementi, Rizzoli, pp. 340, euro 19), non è solo un capitolo decisivo della storia della Russia contemporanea, e della lotta per la libertà e la democrazia, ma è prima di tutto la sua vita. Da meno di due anni Boris Belenkin ha scelto di lasciare Mosca per continuare dall’esilio di Praga il suo lavoro in favore dei diritti umani e per la ricostruzione della memoria delle repressione e degli eccidi compiuti durante l’epoca sovietica: l’azione della ong Memorial al cui destino ha legato negli ultimi 35 anni ogni istante della sua esistenza. Prima che il regime di Putin gli facesse capire che per proseguire quella battaglia avrebbe dovuto, intanto, mettere al sicuro se stesso e i propri cari. Belenkin, che di Memorial, cui nel 2022 è andato il Nobel per la pace dopo che era stata bandita da Mosca, è stato a lungo responsabile della Biblioteca (oltre 40mila volumi custoditi), presenterà domani il suo libro a Libri Come a Roma (ore 17,30, Spazio Risonanze, con Marco Damilano e Andrea Gullotta) e domenica a Milano (ore 18 al Memoriale Della Shoah, con Jacopo Tondelli).

Boris Belenkin, foto di Andrew Rushailo Arno

Lei ha spiegato che Memorial rappresenta la memoria del passato rivolta al futuro. Per questo una ong nata per far luce su quanto è avvenuto, è diventata scomoda nella Russia di oggi?
La storia è uno strumento di potere. Perciò Putin e quanti detengono il potere in Russia vogliono essere gli unici a poterne parlare. Quindi, chi si occupa in modo professionale del passato diventa un nemico giurato per chi vuole trasformare la Storia in ideologia per usarla nel presente.

Fuori dalla Russia si sa poco di quanto l’attività di Memorial si ricolleghi all’esperienza dei dissidenti in Urss. Lei racconta di come a metà anni ’70 contribuì a far circolare una copia clandestina del capolavoro di Vasilij Grossman «Tutto scorre». Come è avvenuto il passaggio di testimone da una generazione all’altra?
Memorial comincia ad organizzarsi intorno all’87, dopo un paio d’anni di perestrojka, quando la società si apre e tornano dal gulag o dall’esilio il 90% dei dissidenti. Proprio costoro cercano un nuovo modo di rapportarsi alla società, che non è più quella che li ha mandati in carcere. Tra questi dissidenti, alcuni si erano occupati in modo quasi professionale, per quanto possibile in Urss, della conservazione della memoria e quindi è su questa base che si è aperta una prospettiva nuova quando tutto ciò è diventato possibile anche sul piano legale negli anni di Gorbaciov. Allo stesso tempo, in quella fase sono le istituzioni stesse a favorire le ricerche, e la pubblicazione di materiali, su quanto era accaduto in precedenza in Urss: prima di allora sarebbe stato impensabile e impossibile, visto che era tutto inaccessibile o oggetto di censura. All’epoca si sono in qualche modo incontrate queste due tendenze, una dal basso e una dall’altro. Nella società russa stava emergendo un interesse di massa per ciò che riguardava la Storia e il passato del Paese. I più giovani consideravano i dissidenti alla stregua di eroi che avevano pagato personalmente per le loro idee e avevano resistito in ogni modo. Mentre, questi ultimi scorgevano nella nuova generazione ragazzi e ragazze che si battevano per le loro stesse idee di libertà. Così, quando nel ’89 fu fondata la sezione di Memorial che si occupava dei diritti civili, a cominciare dal contesto della guerra in Cecenia, la saldatura tra le due esperienze si era già realizzata.

L’aspetto più politico nei suoi ricordi è intrecciato a quello dei rapporti tra le persone, all’idea che venga trasmessa una «memoria viva». Lei racconta di come nel 1988, durante una delle primi iniziative di Memorial fu realizzato un «muro della memoria» con affissi i volti delle vittime della repressione staliniana. Quanto è stato importante il rapporto con i parenti della vittime che fino a quel momento avevano dovuto fare i conti da sole con quella memoria che ora veniva ricostruirla in un contesto collettivo?
Questa idea della «memoria viva» è stata uno degli elementi a mio avviso più importanti, per non dire fondamentali dell’esperienza di Memorial. Credo che la cosa più incredibile e spettacolare di quanto accaduto in questi ultimi 35 anni, sia racchiuso proprio in quella giornata e nel fatto che quel «muro della memoria» non ha rappresentato un’azione che si è conclusa in quel momento, ma che si è ripetuta per tutti gli anni successivi. Il flusso di persone che è venuto da noi per condividere la propria memoria viva non si è mai interrotto.

A proposito di uno dei fondatori di Memorial, Andrej Sacharov, parla di ricordo e assenza e spiega che se non fosse morto già alla fine del’89 le cose in Russia sarebbero andate in modo diverso…
Anche se non avevamo un rapporto personale, per me Sacharov era una figura di riferimento, una delle più importanti all’interno del panorama del dissenso sovietico; seguivo ogni passo della sua vita. E uno dei momenti più significativi della perestroika fu quando intervenne al primo congresso dei deputati del popolo con un discorso molto politico: a un certo punto gli tolgono la parola però lui rimase lì, per concludere quello che stava dicendo nonostante il microfono fosse stato spento. Perciò ritengo che quando è morto, non se ne sia andato soltanto l’accademico o l’ex dissidente. Con Sacharov è morto il più grande politico che avevamo in quel momento.

Oltre all’azione di Memorial, dal suo libro emerge un quadro molto ampio dei movimenti democratici che sembrano aver rappresentato una realtà diffusa alla fine della stagione dell’Urss.
Quello che va dal 1987 agli anni ’90 è stato un periodo unico nella storia del Paese. Una fase che potremmo definire «polifonica», con alcune migliaia di pubblicazioni che circolavano fuori dal circuito ufficiale. A questo vanno aggiunte le centinaia di manifestazioni che si svolgevano in tantissime città ogni anno. Non so quante persone siano state coinvolte, ma so per certo che quanti prendevano parte a questo movimento di massa venivano poi ascoltate anche dal resto della società. E questo era il punto fondamentale.

La sua biografia, come lo sviluppo di Memorial, sono legate alla crescita dei movimenti democratici durante la perestrojka e l’«era Eltsin»: poi cosa è andato storto perché si arrivasse a Putin?
È una domanda ineludibile, a cui è però difficile rispondere in poche battute. Si potrebbe parlare per ore del fallimento della democrazia in Russia. Sinteticamente si può dire che per cercare una risposta va indagato il fatto che nella storia centenaria del Paese non si incontri la democrazia, ma diverse forme di autoritarismo. O come gli anni del potere sovietico abbiano creato un certo tipo di mentalità. E di come, in seguito, nel periodo del governo di Elstin, non ci sia stato tempo sufficiente perché si creassero o si rafforzassero gli istituti democratici necessari. Inoltre, negli ultimi vent’anni, ci siamo resi conto del fatto che al posto di nuove istituzioni sia riapparsa la mitologia del passato sovietico. Perfino verso figure come quella di Stalin, che pensavamo fosse ormai chiaro a tutti che era stato responsabile di milioni di morti, emerge un sentimento di riconoscenza, se non di stima e di amore. Ecco, scoprire che in molti russi prevale ancora questo atteggiamento, per molti di noi ha rappresentato un vero e proprio shock.

Nel libro cita la poesia che scrisse per le Olimpiadi di Mosca dell’80, passate alla storia per il boicottaggio internazionale contro l’invasione russa dell’Afghanistan. Il regime di Putin non è altrettanto osteggiato all’estero?
Penso che la partita ancora non sia chiusa e che la maggior parte dei governi occidentali capiscano l’importanza di quello che sta accadendo. Contenere l’espansionismo di Mosca, per esempio attraverso le sanzioni, non è però così facile come all’epoca dell’Afghanistan. Rispetto ad oggi, c’era più possibilità di essere incisivi contro l’Urss.

I paragoni storici valgono poco, ma con l’invasione dell’Ucraina il regime di Putin ha fatto un passo ulteriore verso il fascismo, tra repressione interna e guerra?
Senza alcun dubbio è una svolta ulteriore verso il fascismo. Concordo con le parole di Oleg Orlov (di Memorial) che meno di un mese fa è stato condannato a due anni e mezzo di carcere perché si è schierato contro la guerra in Ucraina e per aver affermato esattamente questo: che il regime politico che si installato in Russia è totalitario e fascista.

Pensa che rientrerà a Mosca?
Vorrei poter rispondere in un altro modo, ma la situazione è questa: sono morto due volte nell’arco di pochi mesi, la prima quando è iniziata l’aggressione all’Ucraina, la seconda quando è stato liquidato Memorial. Dall’esilio, con tutte le difficoltà del caso, posso continuare a vivere e a svolgere, almeno in parte, l’attività di prima, ma, al momento, non ci sono le condizioni per poter affrontare il discorso del rientro. Non ho le forze per compiere l’atto eroico di Navalny nel tornare, né quello di Orlov di restare. Questa è la situazione.