Bombe e zero acqua, ma Mykolayiv non vuole andarsene
Crisi ucraina Ieri sette missili russi sulla città, preso di mira un impianto di idrocarburi, lo stesso che la popolazione aveva combattuto. La vendetta di Mosca per gli ultimi attacchi contro le piattaforme di trivellazione e all’Isola dei Serpenti
Crisi ucraina Ieri sette missili russi sulla città, preso di mira un impianto di idrocarburi, lo stesso che la popolazione aveva combattuto. La vendetta di Mosca per gli ultimi attacchi contro le piattaforme di trivellazione e all’Isola dei Serpenti
«È come se fossimo a metà di una strada e sappiamo già che da una parte andrà male e dall’altra peggio», dice Karl, di fronte alla colonna di fumo nero che oscura il cielo di Mykolayiv. Si sentono alcuni tonfi, poi un crepitio violento e un’altra fiammata si alza sulle nostre teste.
Alle 12, un attacco missilistico ha colpito una zona periferica della città dove si trova un sito di stoccaggio per idrocarburi. È la vendetta russa per gli attacchi degli ultimi giorni nel Mar Nero, alle piattaforme Chernomorneftegaz e all’Isola dei Serpenti.
NELL’ARIA un forte odore di gasolio e il suono delle sirene dei pompieri che sfrecciano intorno allo stabilimento. Secondo il governatore regionale Vitaly Kim, sette missili sarebbero stati lanciati da una posizione ancora ignota e di questi almeno uno ha centrato il silos che Karl, portuale, guarda sconsolato con una postura un po’ sbilenca causata da un incidente sul lavoro.
Prende una piccola pensione di invalidità per quella «brutta storia» ma «ogni volta che entro in un negozio è come se fosse la prima volta, mi dico “ma come cavolo è possibile? Devono aver alzato i prezzi nella notte» e invece è solo la mia pensione che non vale niente».
Il padre di Karl era tedesco, sua madre è ucraina e vive con lui, in quel quartiere che ieri si è riversato in strada per lo spavento e per assistere allo spettacolo tetro della guerra. «Prima della guerra volevano cacciarci tutti – spiega Karl – per espandere l’impianto, volevano riconvertirlo alla produzione di biocarburante per le navi».
Ma i residenti si sono opposti per mesi, hanno protestato sia pacificamente sia «in altri modi», poi il progetto è naufragato. «Qui da noi diciamo che le tue quattro mura sono sempre meglio di tutto il resto, anche se non valgono niente».
«IO NON ME NE VADO: oltre al fatto che sono cresciuto qui, che qui sto bene e che c’è mia madre, ma cosa dovrei andare a fare altrove?». Anche in questo quartiere manca l’acqua, da almeno due mesi, «c’è solo per gli usi “tecnici” e non sempre». Tanya, un’anziana residente, capisce che parliamo d’acqua e si avvicina iraconda: «Si sono mangiati tutto, quel disonesto…».
«Ma di chi parla?», chiediamo a Karl. «C’è una voce che dice che l’amministrazione ha ricevuto soldi per la sistemazione delle condutture bombardate ma che si sono intascati tutto invece di fare i lavori». «Corruzione», dice Tanya, annuendo a sottolineare la sua convinzione.
«Qui sono tutti molto arrabbiati – spiega Karl – Sono mesi che siamo senz’acqua, per fortuna ci conosciamo e ci aiutiamo ma è difficile, quasi invivibile».
Karl parla quattro lingue: «Sai quella legge sulla cultura russa?». Pensiamo si riferisca al decreto appena emanato dal governo sul divieto di importare e riprodurre prodotti culturali provenienti dalla Russia, dalla Bielorussia e dai territori occupati. «È una follia, l’ucraino è praticamente una lingua letteraria, noi abbiamo sempre parlato russo, tranne quelli dell’ovest che parlano un mix di polacco ungherese e altro, come puoi impedire a un popolo di parlare la sua lingua?».
Si riferiva al periodo di Poroshenko e ai divieti imposti per la lingua russa, non ai provvedimenti recenti. Gli chiediamo se allora crede che i russi abbiano in qualche modo ragione. «Dicono di voler proteggere chi parla russo? È in che modo, con le bombe? Ma che stronzata è questa! La verità è che a Putin non frega niente di noi, né della gente del Donbass, allo stesso modo in cui Biden vuole solo indebolire la Russia; noi siamo nel mezzo e non abbiamo via di scampo finché uno di loro due non deciderà che è ora di finirla».
«MA TU SOTTO il controllo della Russia ci vivresti?». Karl riflette, per lui nato e cresciuto durante l’Unione sovietica la domanda è seria.
«Oggi è impossibile, i russi sarebbero spietati con noi, ormai ci vedono come nemici, ma io non voglio vivere come gli americani, non voglio lavorare tutta la vita per poi farmi togliere la casa o morire per strada se non ho i soldi per l’ospedale. Sarebbe bello poter rimanere qui e vivere in pace».
Gli chiediamo se nel quartiere sono in molti a pensarla come lui. «Dipende, i più giovani no, molti di loro si sono arruolati». Come prevedendo che stessimo per chiedere se condanna quella scelta, riprende: «Sono cresciuti così, credo che sia normale, io ho visto altre cose».
Del resto, non sono solo i più giovani, Karl racconta di Oleksandr, un suo compagno di scuola, «per me era come un fratello, anzi più che un fratello, viveva lì in quel palazzo», che è morto un mese fa in Donbass e di suo fratello minore, Anton, figlio del suo patrigno.
«TUTTI I GIORNI lo sento e gli dico “non fare l’eroe, la tua vita è più preziosa di tutto questo schifo”, spero che mi ascolti e che torni qui». Dall’incidente in poi Karl soffre di cuore, quando lo stress è troppo gli viene la tachicardia e «per Oleksandr sono stato molto male ma lui era un uomo, non so come dire…aveva fatto la sua vita; se succedesse ad Anton sono sicuro che morirei».
Mentre osserva una nuova fiammata il volto si oscura: «Spero che non diventeremo tutti come dice la Bibbia, “siate gelosi dei morti perché ora abitano in un posto migliore”, non era proprio così ma il senso è chiaro, no?». Lo salutiamo, anche noi speriamo che Anton torni a casa il prima possibile.
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