In questi ultimi venti mesi, dal febbraio del 2022 a questo ottobre del 2023, missili piovono e bombe vengono sganciate sui cittadini di numerose e popolose città, in Europa e in Medio Oriente. Un giorno dopo l’altro cresce tra gli abitanti, tra gli uomini, le donne e i bambini, il numero delle vittime, si intensificano le distruzioni dei palazzi, delle scuole, degli ospedali, delle chiese, delle sinagoghe e delle moschee.

Un’onda di morte si abbatte sulle inermi popolazioni civili. Come a Guernica nell’aprile del 1937, milleseicento cinquanta quattro morti e centinaia di feriti sotto il fuoco dei Messerschmidt tedeschi e dei Fiat CR32 italiani. Come a Dresda (tra venticinquemila e quarantamila morti) nel febbraio del 1945. Come a Hiroshima e a Nagasaki (forse duecentocinquantamila cittadini uccisi) nell’agosto di quel medesimo anno, l’ultimo della seconda guerra mondiale. La guerra che ha colpito con inaudita violenza anche le città italiane. Da Palermo a Napoli, da Roma a Genova e Firenze e Milano.

C’è memoria nei bambini di allora che sono i vecchi di oggi di quei giorni di guerra nelle città. Gli allarmi, le sirene, i rifugi. E il ricordo indelebile del compagno di scuola dilaniato dalle bombe, che il rifugio casalingo non aveva raggiunto per tempo.
Tra l’8 settembre del 1943 e il 4 giugno del 1944, Roma è occupata dalle truppe tedesche. I bombardamenti anglo americani sulla città e negli immediati dintorni si susseguono. Avevano preso avvio il 19 luglio del 1943 nel quartiere di San Lorenzo, contiguo alla stazione ferroviaria.

Tra le macerie di San Lorenzo, del Prenestino, del Tiburtino e del Tuscolano si contano tremila morti e undicimila feriti. Oltre diecimila case furono distrutte e più di quarantamila furono i senza tetto. Sto alla cronaca dei cinque mesi del ’44 di Roma città aperta. Il 10 febbraio si hanno cinquecento morti a Castelgandolfo e ad Albano. Il 12, sabato bombe su San Giovanni e Santa Maria Maggiore. Sette morti e venticinque feriti. Lunedì 14 è bombardata la zona di piazza Verbano, Monteverde e il quartiere Nomentano: in totale trecento morti e seicento feriti. Martedì 7 marzo vengono colpite le zone di Ostiense, Ardeatino, Testaccio, Portuense, Salaria, Cassia e Camilluccia.

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Il 10 bombe sul quartiere Italia e su Val Melaina: duecento morti. Il 14 si giunge al ventitreesimo bombardamento dall’inizio dell’anno. Il 18 un tram è colpito in via Morgagni: sessanta morti. E così via. Quindici morti e quaranta feriti alla Magliana il 19 maggio e, di nuovo, il 30 maggio: ventiquattro morti tra la Magliana, la Salaria, Settebagni e Ponte Mammolo. Trentanove i feriti. Cinque giorni dopo, il 4, domenica, gli americani entrano a Roma. In dieci mesi, dal luglio del 1943, quale risultato di cinquantuno incursioni degli aerei da bombardamento anglo americani, si hanno a Roma settemila morti.

Di quei corpi straziati tra i calcinacci, abbattuti in istrada, stesi uno accanto all’altro su un marciapiede, freddati davanti al portone di casa, riversi sulle scale d’un sagrato, uccisi dalle bombe o da una raffica di mitra, rendono testimonianza numerose opere di pittura. Le più rilevanti si debbono specialmente a Mario Mafai, a Nino Franchina, a Mirko Basaldella, a Andrea Spadini, a Renato Guttuso. In particolare Guttuso realizzò una serie di carte ad inchiostro che, a denunciare gli orrori compiuti sui civili e sui partigiani dall’esercito e dalle SS tedesche, radunò in una cartella di ventiquattro fogli sotto il titolo Gott mit uns (Dio con noi).

È l’antico motto teutonico inciso nelle fibbie dei cinturoni dei soldati del Reich che occupano Roma. Guttuso racconta che in quei mesi, per la prudenza imposta dalla cospirazione, viveva seminascosto negli uffici della rivista «Documento», nei pressi di piazza del Popolo. Ebbene, ricorda, lì «c’erano degli inchiostri colorati, di quelli che si adoperano in tipografia, a base di anilina e di alcool, e qualche risma di carta. Eravamo in regime di coprifuoco, le serate erano lunghe. Quando non c’era da girare per la città per tracciare scritte sui muri o non venivo spedito in missione fuori Roma dedicavo il tempo a quello che sarebbe diventato il Gott mit uns».