È un caos difficile da districare quello che sta vivendo in questi giorni la Bolivia. La crisi, l’ennesima dal golpe dello scorso novembre, ha preso avvio il 3 agosto, quando i movimenti sociali che costituiscono la base del Movimiento al Socialismo hanno deciso di realizzare blocchi stradali spezzando in due il paese – ve ne sono attualmente un centinaio – per protestare contro il nuovo rinvio delle elezioni, fissate prima per il 3 maggio, poi per il 2 agosto, quindi per il 6 settembre e infine per il 18 ottobre.

Una decisione adottata unilateralmente dal Tribunale supremo elettorale – con il pieno sostegno del governo di Jeanine Áñez -, malgrado la data precedente del 6 settembre fosse stata fissata dopo un lungo e faticoso negoziato tra le forze politiche e promulgata, seppure assai malvolentieri, dalla stessa presidente.

Che fosse ormai tardi per tornare indietro, ne erano consapevoli anche i manifestanti. Ma dinanzi agli sforzi della presidente golpista di mantenere il potere il più a lungo possibile, quale garanzia c’era che il Tse, approfittando della pandemia, continuasse a posticipare indefinitamente l’appuntamento elettorale al di fuori di qualunque accordo politico? Di fronte al rischio di paralisi del paese, il governo ha per prima cosa giocato la carta delle intimidazioni e delle minacce di sgombero, supportato da gruppi paramilitari legati all’Unión juvenil cruceñista e alla Resistencia juvenil kochala – massima espressione della destra bianca e razzista – che hanno tentato di forzare violentemente i blocchi.

Quindi, con una svolta di 180 gradi, è passato a proporre la via del dialogo, continuando però ad accusare i manifestanti di impedire il passaggio dei convogli sanitari con le bombole di ossigeno, benché i movimenti stessi avessero dato disposizione di lasciarli passare.

Oltre a ottenere dalla Procura generale l’ennesima incriminazione di Evo Morales, stavolta per terrorismo, genocidio e delitti contro la salute, estesa ai candidati alla presidenza e alla vicepresidenza del Mas Luis Arce e David Choquehuanca e al dirigente della Central obrera boliviana Juan Carlos Huarachi. Neppure la decisione del Mas di votare, dopo l’accordo raggiunto con il Tse con la mediazione delle Nazioni Unite, la legge che fissa il 18 ottobre come la «data definitiva, improrogabile e inamovibile», sembra aver sbloccato la situazione.

Né è finora riuscito farlo lo stesso Evo Morales, il quale, probabilmente preoccupato per i possibili contraccolpi elettorali di una protesta tanto radicale, ha pubblicato un tweet dall’Argentina invitando «i dirigenti sociali e il popolo mobilitato» a «considerare» il testo dell’accordo.
Un invito per ora caduto nel vuoto, a conferma del fatto che Evo Morales, dal suo esilio argentino, abbia perso, almeno in parte, il controllo della sua base sociale. La quale, sotto la guida della potente Cob, ha infatti lanciato la sua controproposta, chiedendo che la data delle elezioni venga fissata per l’11 ottobre, che sia l’ultima e definitiva e che sia votata dall’Assemblea legislativa plurinazionale.
Una prova di forza, quella tentata dal cosiddetto Pacto de Unidad (la coalizione di movimenti che sostengono il Mas), che rimanda a una possibile escalation del conflitto, in cui la protesta per l’ennesimo rinvio elettorale si intreccia sempre più strettamente alla richiesta di dimissioni della presidente Áñez.
Dopo il golpe, la violenta repressione che ne è seguita, la persecuzione contro il Mas, il crescente razzismo nei confronti dei settori indigeni, la misura dei movimenti è infatti ormai completamente colma.