A conti fatti, ha perso Putin, ha perso la Russia. Ma la democrazia, la democrazia digitale non ha fatto alcun passo in avanti. Ha perso Putin, ancora, hanno perso i suoi alleati, le sue idee ma tutto resta com’era: con il diritto di connessione di otto miliardi di persone in mano a dieci grandi gruppi. Un diritto a disposizione delle big tech.

Pochi se ne sono accorti ma in questi giorni, a Bucarest, c’è stata un’elezione che avrebbe potuto cambiare tanto nelle nostre vite. Tantissimo nei modi di comunicare.

Lì, nella capitale romena, si sono riuniti i delegati dell’ITU, l’International Telecommunications Union, per la prevista riunione quadriennale. Stati, governi – gli unici con diritto di voto – ma anche rappresentanti di organismi di settore, piccole delegazioni della società civile, lobbies – tante – delle imprese.

Un vertice che era previsto potesse durare addirittura tre settimane perché all’ordine del giorno c’era il tema più rilevante: l’elezione del segretario generale e degli altri organismi direttivi. 

E’ durato meno, perché nel voto ha vinto, la candidata statunitense, Doreen Bogdan-Martin, sostenuta da tutti i paesi occidentali, in soccorso della quale è intervenuto addirittura Biden. E ha perso Rashid Ismailov, il candidato di Putin – qualcuno dice il “candidato per procura dei cinesi”, ma non è del tutto vero -, ex vice capo del ministero delle telecomunicazioni russo, professore universitario, oltre a vari incarichi nelle filiali di Ericsson e Nokia a Mosca. 

Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo.

Perché anche se l’ITU è uno di quegli organismi sovranazionali dei quali non si parla mai e che nessuno conosce, ha un enorme potere. Gigantesco. E’ antico, fu creato nientemeno che nel 1865, a Parigi. Con molti meno paesi aderenti, ovviamente, all’epoca si chiamava Unione Telegrafica Internazionale, e aveva il compito di creare – provare a creare – standard unici per tutto il mondo.

Si narra che proprio in quel vecchio organismo fu deciso che per le richieste di soccorso, nel mondo, si sarebbe dovuto usare il codice morse, tre punti, tre linee, tre punti: SOS.

Dopo 160 anni, è facile capirlo, i compiti dell’ITU sono cambiati, sono diventati rilevantissimi. Lì, si decidono gli standard internazionali delle comunicazioni. Gli standard della rete.

Un problema che è anche politico, non solo tecnico. Perché in gioco c’è come le informazioni e le comunicazioni sono progettate, sviluppate, implementate, come le reti sono distribuite. 

E mai come stavolta lo scontro è stato chiaro.

Fra chi vuole lasciare le cose come stanno – un cartello che si autodefinisce sostenitore di “una rete libera” – e un altro gruppo di paesi. Non omogeneo, con adesioni fluttuanti ma che aveva un progetto preciso per l’Internet di domani: un nuovo protocollo, che sostituirebbe l’attuale entro il 2030. Un nuovo sistema di funzionamento che i critici hanno definito la “balcanizzazione della rete”, definizione che rende bene l’idea. Perché la rete – per capire – non sarebbe più orizzontale, “continua”, ma avrebbe tanti centri.

Naturalmente collegati e collegabili fra di loro, ma quei “centri” consentirebbero agli Stati di intervenire direttamente, di controllare – e di censurare – i loro paesi. E’ esattamente il progetto presentato, proprio all’ITU, due anni fa da dal colosso cinese Huawei, descritto – in una pagina del suo sito che è stata recentemente cancellata – come l’innovazione necessaria soprattutto per far fronte alla dilagante cyber criminalità. Il tutto ovviamente condito con spiegazioni tecniche, secondo le quali questo nuovo protocollo sarebbe l’unico in grado di funzionare coi nuovi standard di comunicazione ultraveloci. 

Un progetto, quello di poter creare e controllare tanti Internet nazionali, che ovviamente non dispiaceva e non dispiace ai regimi che in questi anni si sono esercitati alla censura in rete. 

In questa situazione, è arrivata la candidatura di Rashid Ismailov. È cominciata la sua corsa elettorale, le avances presso i governi considerati suoi potenziali elettori.

Gli va dato atto di essersi presentato con un volto lontano da quello del grigio funzionario, s’è regalato addirittura un logo per la campagna che cita esplicitamente il futurismo russo di El Lissitzky ma il suo giro elettorale è stata più o meno un mercato delle vacche, anzi “un mercato come quello che precede l’assegnazione ad un paese dei campionati mondiali di calcio”, per dirla con Chris Stokel-Walker, lo studioso autore del libro Tik Tok Boom, China’s Dynamyte App.

Rashid Ismailov non ha mai fatto riferimento al progetto di “reti nazionali” ma ha fatto capire che quello era il suo programma. Ad un certo punto, tempo fa, è sembrato addirittura potercela fare. 

Poi, c’è stata l’invasione dell’Ucraina. E diversi paesi – pur tentati di sostenerlo – si sono ritirati. Ma tutto è rimasto sospeso, tanto che non molto tempo fa, anche Biden fu costretto ad intervenire sul tema, usando parole allarmatissime.

Alla fine, si diceva, Doreen Bogdan-Martin, già direttrice dell’ufficio sviluppo dell’ITU, ce l’ha fatta. Per 34 voti: 139 a 105. La prima donna alla guida dell’organismo. Figura un po’ incolore, apparentemente super partes, mai direttamente coinvolta in scontri politici. 

Vale la pena ricordare – per inciso – che nelle elezioni di Bucarest, uno dei due posti riservati all’Europa Occidentale, è stato assegnato all’italiano Mauro Di Crescenzio, da tempo nell’organismo.

Le dichiarazioni dei vincitori sono state comunque tutte improntate allo scampato pericolo.  “Internet resterà lontano dai great firewall”, “la rete resterà a disposizione del pluralismo”, cose così. Questo è stato il tenore. Nessuno ha mai citato la Cina. Che comunque sembra aver cambiato tattica – dicono gli osservatori – rispetto a quella sfrontata targata Huawei. 

Non più un grande progetto di trasformazione del protocollo ma piccoli aggiustamenti, piccole modifiche che poi in futuro portino magari a quell’obbiettivo.

Ed infatti, i cinesi si sono assicurati decine di posti nelle varie commissioni tecniche, che si metteranno al lavoro nelle prossime settimane. 

Per ora si resta con la rete così com’è, dunque. Ma, appunto, c’è poco da cantar vittoria.

Tre miliardi di persone non hanno connessione, altri ottocento milioni vivono in paesi dove creare una rete costerebbe troppo e si da tutto in appalto – tutto in appalto, compresi gli strumenti di controllo – ai colossi mondiali.

Nell’altra parte del mondo i gruppi che stanno nella Silicon Valley o a Pechino profilano gli utenti, triangolano i loro dati, li vendono o li “affittano” alla polizia (anche questo accade negli States).

Nessuno, tantomeno alla convention dell’ITU a Bucarest, ha mai pensato di valutare l’effetto degli standard sulle persone, sui diritti umani. Su cosa cambia per la loro libertà, sul loro diritto al sapere, a comunicare.

Maria Farrell
“Abbiamo costruito una rete non per tutti, estrattiva e costosa. E che oggi crea tanti problemi quanti ne dovrebbe risolvere”

“Abbiamo costruito una rete non per tutti, estrattiva e costosa. E che oggi crea tanti problemi quanti ne dovrebbe risolvere”, per usare le parole della studiosa nordirlandese Maria Farrell, chiamata a commentare i risultati di Budapest.

L’ITU ha evitato che i problemi si aggravassero insomma ma non ne ha risolto neanche uno. Hanno perso Putin ed i suoi alleati ma il resto è rimasto com’è. Sbagliato. Disuguale.