Lunedì 10 a inaugurare la Berlinale 2022 sarà Peter von Kant, perigliosa rivisitazione al maschile del classico di Fassbinder con Denis Ménochet e Isabelle Adjani firmata da un François Ozon incredibilmente prolifico negli ultimi anni. Ma le vie del cinema queer innervano tutte le sezioni di questo festival sin da quando Manfred Salzgeber diede vita nel 1969 al Forum des Jungen Films e poi, nel 1979, assunse la guida della sezione Info-Schau ribattezzata più tardi Panorama. Forum e Info-Schau/Panorama non erano luoghi «a tematica» per un pubblico cautamente segmentato, bensì approdi e punti di fuga di un cinema di ricerca, fatto di corpi mutanti e identità a frammenti dove la dissidenza sessuale e di genere entravano a far parte di una più trasversale reinvenzione del mondo e delle forme. Nel tempo, «Panorama» è diventata la sezione d’elezione per le proposte LGBTQ+ e ancora lo è con ben 11 titoli candidati quest’anno al Teddy Award a fronte dei cinque in Forum e Forum Expanded, uno in Encounters, uno nella competizione principale e altri tre o quattro titoli in «Generation» (selezione di opere su e per i più giovani).

Purtroppo, «Panorama» risente da diverso tempo di una certa standardizzazione dell’immaginario gay e delle forme espressive che l’equipe
subentrata con la nuova direzione non sembra aver ancora dissolto.

Chissà se l’apertura affidata al nuovo film di Alain Guiraudie, Viens, je t’emmène segnerà un cambio di passo. Dopo una lavorazione resa accidentata dal covid, il film è molto atteso dato che l’ottimo Rester vertical risale ormai al 2016. Nel frattempo, il regista occitano si è dedicato anche alla scrittura del suo secondo romanzo, Rabalaïre, uscito quest’estate per P.O.L.. Sorprendente apologo tragicomico di oltre mille pagine sui margini sociali e geografici, sulla disoccupazione, sui vecchi, sulla vita frugale e rurale, sui meandri imperscrutabili del desiderio, il libro è anche un ritratto inconsueto della Francia reduce dalle stragi di Parigi, Strasburgo e Nizza.

Viens, je t’emmène segue una delle trame che si dipanano tra le pagine di Rabalaïre ed è la storia d’amore tra un giovane (Jean-Charles Clichet) e una prostituta più matura (Noémie Lvovski) sposata con un malavitoso. La relazione tra i due nasce mentre Clermont-Ferrand è sconvolta da un attentato e si complica ulteriormente con l’arrivo nelle vite dei due personaggi di un giovane senzatetto magrebino. Guiraudie sceglie ancora una volta di raccontare i conflitti che attraversano la Francia di oggi a partire dalla provincia e dalle vite di personaggi esclusi, eccentrici.

Due i film italiani in «Panorama»: Calcinculo, opera seconda di Chiara Bellosi dopo Palazzo di Giustizia, e il documentario Nel mio nome di Nicolò Bassetti. Il primo è il racconto di formazione della quindicenne Benedetta e della sua amicizia con la transgender Amanda interpretata da Andrea Carpenzano; il secondo è un ritratto corale sulla ricerca di sé attraverso quattro amici trans di diverse città e conta su un produttore esecutivo d’eccezione, l’attore americano Elliot Page. Molti i documentari: da Ask, Mark ve Ölüm (Love, Deutschmarks and Death) di Cem Kaya sulla scena musicale della diaspora turca in Germania a Dreaming Walls di Amélie van Elmbt e Maya Duverdier sulla ristrutturazione del Chelsea Hotel; da Brainwashed: Sex-Camera-Power della statunitense Nina Menkes che quarant’anni dopo Sois belle et tais-toi di Delphine Seyrig interroga la pervasività del male gaze attraverso sequenze dell’intera storia del cinema, a Nelly & Nadine di Magnus Gertten su una coppia di donne che si conobbero nel campo di Ravensbrück per poi passare insieme il resto della loro vita.
Sezione assai più sperimentale di «Panorama», «Forum» ha meno a cuore quell’intreccio di sessuale, politico e sociale che è il queer.

Con alcune eccezioni, come il brasiliano Gustavo Vinagre, che quest’anno torna a Forum per la terza volta dopo A rosa azul de Novalis (2019) e Vil, má (2020). Três tigres tristes, questo il suo nuovo titolo, filma tre giovani di San Paolo e attraverso di loro il delinearsi di nuove geometrie affettive nel contesto di una crisi epocale. La pandemia e i fallimenti della politica di Bolsonaro si intrecciano a un’esigenza più ampia di ripensare modi di stare al mondo e di fare comunità. Con una sensibilità spiccata per gli sfrangiamenti di una messa in scena che rivela il suo farsi, Vinagre prosegue la sua ricerca estetica sul limitare tra cultura alta e popolare. Analogamente, Bashtaalak sa’at (Shall I Compare You to a Summer’s Day) dell’artista egiziano Mohammad Shawky Hassan è un esordio nel lungometraggio che fa leva sulle leggende popolari, i telefilm, i musical e i video di canzoni pop mediorientali per una riscrittura «altra» del discorso amoroso tradizionale.

L’immaginario si trova oggi a dover negoziare con una pandemia che investe le relazioni affettive, le forme della comunicazione, il contatto tra i corpi, acuendo il senso del lutto ma anche il desiderio di vita: Jet Lag di Xinyuan Zheng è il video-diario di un viaggio di ritorno dall’Austria alla Cina tra aeroporti, hotel, periodi di confinamento e un’inquietudine in cui risuonano gli echi storici di altre epidemie dal forte impatto sulle intimità; If from Every Tongue It Drips di Sharlene Bamboat cerca di superare le barriere geografiche e il «distanziamento sociale» attraverso una riflessione multiforme, multilingue e metalinguistica tra Sri Lanka, Canada e Scozia. Infine, in Encounters, Queens of the Qing Dynasty, della canadese Ashley McKenzie porta in scena un’altra «strana coppia» che, attraverso l’amicizia, mette in scacco la presunta separazione tra normalità e alterità. Perché essere queer significa essere «fuori posto» e fieramente tali.