Nelle analisi di questi ultimi giorni, sembrano essere stati rimossi molti aspetti problematici del pontificato di Benedetto XVI e dei venticinque anni trascorsi dal cardinal Ratzinger alla guida dell’ex Sant’Uffizio per lasciare spazio a una lettura esclusivamente celebrativa. Ne abbiamo parlato con Daniele Menozzi, professore emerito di Storia contemporanea alla Normale di Pisa e studioso del papato in età moderna e contemporanea.

Prof. Daniele Menozzi

Professor Menozzi, qual è stato l’aspetto centrale del pontificato di Benedetto XVI, la “stella polare” che lo ha sempre orientato?

Sulla base dei suoi interventi pubblici direi la convinzione, ereditata dalla cultura intransigente ottocentesca, che la fede cristiana, così come si è strutturata in seguito all’incontro con la cultura greco-romana, ha prodotto la civiltà e ne costituisce l’insostituibile fondamento. Di qui la linea di tutto il pontificato: la tesi che il mondo moderno, se vuole mantenere i valori civili che lo costituiscono, non può che ricorrere al sostegno della Chiesa, unica autentica depositaria e interprete della legge naturale, valida per tutti, sempre e in ogni luogo.

A dieci anni di distanza, quale significato possiamo attribuire alla scelta delle dimissioni?

Un atto di grande lucidità e responsabilità. Il papa si è reso conto che la sua linea di governo non ha retto alla prova dei fatti. All’epoca della post-modernità la riproposizione del progetto di una Chiesa che interviene nella società per fissare le norme, universalmente valide, della convivenza civile, finiva solo per allontanare ulteriormente gli uomini dal cattolicesimo. Benedetto XVI ha capito che, per assicurare il futuro della Chiesa nel mondo moderno, occorreva un radicale mutamento. Il trauma della sua rinuncia lo ha reso possibile.

Resterà un atto straordinario, oppure potrà diventare una scelta ricorrente?

Se lette nel breve periodo, le dimissioni sono legate alla straordinarietà della crisi del cattolicesimo, ma hanno una valenza di lungo periodo. Dopo gli sforzi di sacralizzazione del papato che percorrono l’età moderna e contemporanea, la rinuncia di Benedetto XVI interrompe questo processo e avvia un percorso di desacralizzazione del ministero papale. Diversi atti di Francesco lo hanno ulteriormente sviluppato. È perciò ragionevole ipotizzare che la rinuncia al ministero esercitato diventerà una prassi abituale: vale per tutti i vescovi in comunione con il vescovo di Roma, perché non dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma?

Nei 25 anni in cui Ratzinger ha guidato la Cdf, la libera ricerca scientifica, soprattutto quella teologica, è stata imbrigliata e imbavagliata con una serie di severi provvedimenti disciplinari. Perché?

La risposta è complessa. Vi è un dato immediato: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ritenuto che la presenza di una linea alternativa a quella che avevano scelto minasse la compattezza della Chiesa e ne indebolisse il ruolo. Dunque la condanna è stata la via giudicata necessaria per garantire efficacia alla loro azione di governo. Ma vi è anche un più profondo dato culturale. La maturazione teologica di Ratzinger è avvenuta negli anni ‘50 del ‘900, quando la Chiesa si riteneva pensabile solo come un monolite di cui è garante l’autorità del papa. Per quanto fosse profonda e raffinata, questa teologia non poteva che ritenere una minaccia inaccettabile alla verità stessa della fede quella libertà e quel pluralismo che si sono profilate dopo il Vaticano II come componente ineliminabile della ricerca di una verità che ha nelle Scritture e non nella monolitica autorità ecclesiastica il suo punto di riferimento centrale. Se Francesco insiste sulla figura della Chiesa come poliedro è perché la sua cultura teologica è maturata dopo il Concilio.

Assisteremo presto alla canonizzazione di Benedetto XVI come è stato per quasi tutti i papi del Novecento?

Sembra che negli ultimi decenni il papato abbia deciso di autocelebrarsi portando sugli altari la maggior parte dei papi novecenteschi. Alla base di questa impostazione c’è un’ambiguità che risale alla canonizzazione di Pio X ad opera di Pio XII: si santificano le virtù del semplice credente, ma con l’inevitabile sottinteso che il riconoscimento canonico ricade poi anche sull’esercizio della funzione papale del nuovo santo. Ad esempio, celebrare san Pio X significa anche esaltare le modalità di una repressione antimodernista che non è propriamente un esempio di virtù cristiane, di cui quel pontefice, sul piano personale, ha pure dato prova. Si può allora auspicare che la controversa gestione del ministero petrino da parte di Benedetto XVI aiuti a scogliere l’ambiguità di questo nodo lasciato in eredità da un pesante passato.