Il colpevole, ooooppps il responsabile c’è e ha già provveduto a presentare opportune dimissioni. È l’ambasciatore Francesco Talò, capo dell’Ufficio diplomatico di palazzo Chigi e del resto il primo a farsi carico dell’intera incresciosa vicenda era stato proprio lui, con tanto di comunicato. Forse le cose sono andate proprio così, forse l’ambasciatore, sul limitare della pensione, ha accettato il ruolo di capro espiatorio. In ogni caso la versione offerta ieri da Giorgia Meloni e suggellata da quelle dimissioni permette alla premier di uscire bene dal fattaccio.

LA CONFERENZA STAMPA di ieri era convocata per parlare di più serie questioni, come il futuro assetto istituzionale del Paese, ma molti giornalisti hanno preferito concentrarsi sulla beffa telefonica dei due comici russi. La premier non si è fatta pregare. In tutta evidenza, anzi, aspettava solo la domanda giusta per sfoderare la sua versione dei fatti. In queste cose Giorgia Meloni è capace: ha mestiere e talento naturale. A differenza del sottosegretario Mantovano non incappa nell’errore clamoroso di negare fingendo di aver mangiato subito la foglia: «Verso la fine della telefonata mi è venuto qualche dubbio, soprattutto per il passaggio sul nazionalismo ucraino, tema che pone solo la propaganda russa. Ho segnalato il mio dubbio all’Ufficio diplomatico e credo che ci sia stata una superficialità nelle verifiche. Per questa ragione l’ambasciatore Talò questa mattina ha rassegnato le dimissioni e lo ringrazio».

Il solo problema della ricostruzione illustrata da Meloni è il livello della sua perfezione, almeno per quanto riguarda l’impeccabilità della premier stessa e dei suoi collaboratori più stretti, escluso naturalmente Talò. La beffata afferma infatti di non avere alcuna responsabilità nell’aver risposto a una richiesta di colloquio accreditata dal suo ufficio diplomatico, e darle torto è impossibile tanto più che di telefonate del genere Talò ne aveva già gestite e organizzate un’ottantina. Ma del resto la «superficialità» dell’apparato di sicurezza non è consistita nel farsi ingannare dalla rodata coppia Vovan e Lexus: c’erano già caduti in tanti. Lo sbaglio grave che è costato il posto a Talò è stato non procedere con gli accertamenti richiesti dopo l’alert della premier. Col che viene incidentalmente meno ogni domanda sul ritardo con cui ci si è resi conto della vera natura della chiamata: «Al mio alert non è arrivata alcuna risposta e io ho pensato che andasse tutto bene».

SULLA TESI DEL COMPLOTTO ordito se non da Putin almeno dai suoi servizi segreti Meloni va con i piedi di piombo. Il sospetto naturalmente c’è perché in fondo «questa telefonata è stata rilanciata da canali organici alla propaganda del Cremlino» però di «evidenze» non ce ne sono e figurarsi se poteva mancare l’ormai rituale sfogo contro quelli che «pur di attaccare questo governo sono disposti anche ad attaccare l’Italia» e che «fanno da megafono a questi due comici».

L’opposizione insomma, ma anche, probabilmente, le testate che più hanno cavalcato la vicenda.

Su queste basi è molto difficile che la premier accetti di svolgere un’informativa di fronte al Copasir, come chiede l’opposizione. Significherebbe tenere aperto un caso che il governo considera chiuso con l’addio di Talò. Peraltro che la vicenda abbia avuto un risalto esagerato è probabilmente vero: capita che i due problemi principali degli ultimi tempi per la premier non siano stati creati dall’opposizione ma da un fuorionda e da una burla telefonica. Tanto normale non è.