Incontriamo Éric Baudelaire e Oxmo Puccino in occasione della presentazione di Une fleur à la bouche alla Berlinale, nella sezione Forum. Un film che ha messo entrambi alla prova: per Puccino, musicista, è la prima volta come attore mentre Baudelaire non aveva mai adattato un testo teatrale, in questo caso il dramma di Pirandello L’uomo dal fiore in bocca. Abbiamo posto alcune domande al regista per approfondire le ragioni di questo lavoro.

La relazione tra immagine e parola è molto importane per il tuo cinema. Come hai scoperto questo testo e perché hai deciso di farne un film?

L’ho scoperto circa trent’anni fa, ero molto giovane e facevo teatro. In una sera presentavamo due spettacoli, io recitavo un testo di Getrude Stein e altri questo dramma di Pirandello. Mi ricordo di esserne rimasto molto toccato, riferendosi poi ad una malattia nei primi anni ’90 era immediato il collegamento con l’Aids. Le persone intorno a me ne stavano morendo e risultare positivi sembrava essere una sentenza. Avevo allora pensato che forse un giorno avrei fatto qualcosa con quel testo. Le riprese della prima parte, che si svolgono in un centro olandese di smistamento dei fiori, l’ho realizzate senza sapere bene a cosa mi sarebbero servite fino a quando, sei mesi dopo, ho ripensato a L’uomo dal fiore in bocca.

La relazione tra cinema e teatro è piuttosto complessa, come l’hai inquadrata?

Non ho mai amato il teatro filmato, non è un tipo di cinema che mi interessa. Ma la vita è piena di paradossi, ero innamorato del testo e il fatto di aver scelto Oxmo Puccino per interpretare il personaggio principale era per me un modo per portare il film in un spazio diverso che non fosse né cinema realistico né teatro.

Tra i tanti temi che attraversano il testo c’è la questione dello sguardo, ovvero come cambia il modo di guardare il mondo quando si ha la morte vicino. È un aspetto che ti ha attirato?

Il mio approccio ai materiali è prima emotivo e poi intellettuale, quindi non è per questo che l’ho scelto. Una volta che ho iniziato a lavorarci però ho compreso la complessità teorica di questo lavoro e sicuramente lo sguardo è centrale perché osservare è ciò che permette al protagonista di rimanere in vita, di ottenere del tempo in più. È come se creasse il tempo attraverso l’osservazione.

Che tipo di approccio hai avuto invece alla questione della prossimità della morte?

Ora che sono più adulto guardo alla morte in modo diverso, forse per questo è rinato il mio interesse per il testo. Abbiamo deciso di realizzare Une fleur à la bouche prima della pandemia e quando è arrivata, la relazione con la realtà è diventata piuttosto complessa. Non volevamo essere sopraffatti da quanto stava accadendo e così abbiamo lavorato di astrazione, infatti il protagonista non ha alcun «fiore in bocca», nessuna escrescenza, aprendo così a diverse possibilità sulla natura della malattia.

La prima parte del film non ha alcuna relazione con il testo me è altrettanto potente, inquadrando il percorso che fanno i fiori per venire smistati emerge la loro fragilità, così come la relazione che intratteniamo con la natura e con le macchine.

Ci sono pochi posti in cui sono stato che non richiedono alcuna spiegazione ma solamente di essere filmati bene per dire qualcosa di importante sul mondo. Nella maggioranza dei miei film il linguaggio è molto presente ma quando sono arrivato per la prima volta a visitare il mercato dei fiori di Aalsmeer sono rimasto colpito dalla possibilità di dire qualcosa di complesso senza parlare. Chiaramente è importante lavorare con qualcuno come Claire Mathon, direttrice della fotografia e Clarie Atherton al montaggio per capire come riprendere quel luogo, con quali tempi. Grazie a loro quelle sequenze ci dicono qualcosa sull’economia mondiale di oggi, solo il cinema poteva farlo con quella forza. Anche riprendere qualcuno che recita un testo è una possibilità del cinema, e nella seconda parte del film la struttura è molto semplice: due attori, la luce, campo e controcampo. Ho voluto mettere insieme due esempi molto diversi di cosa il cinema può essere, cosa può fare. Uno dei vantaggi di appartenere ad una piccola economia produttiva è la possibilità di chiedere allo spettatore di cercare da sé i collegamenti, di far lavorare l’immaginazione anche dopo la visione, sarebbe impossibile nella grande industria del cinema.

Il tuo è un approccio politico al cinema, anche se in questo film non viene esplicitato.

Trovo interessante ciò che il protagonista sceglie di osservare: potrebbe stare per morire e decidere, ad esempio, di guardare un tramonto. Invece lui cammina e osserva le persone lavorare. L’idea che emerge è che la vita è lavoro: come le persone lo svolgono, in quale contesto, in quale economia. Sono domande politiche anche se affrontate in una maniera poetica.