Con gli accordi in materia di regionalismo differenziato sollecitati da Emilia Romagna, Lombardia e Veneto si vorrebbe incidere profondamente sui compiti dello Stato centrale (quindi del Governo e del parlamento nazionali) con effetti dirompenti sui principi di unità sociale ed economica della Repubblica.

Si tratta pertanto di un processo di importanza capitale per il futuro del Paese, all’esito del quale comprenderemo se gli italiani avranno ancora uno Stato cui sarà consentito costruire un’infrastruttura che attraversa più regioni e se il costo dei diritti dei cittadini continuerà a gravare sulla fiscalità generale improntata a criteri di progressività, come stabilisce l’articolo 53 della Costituzione.

Sembra incredibile, ma un processo di tale portata, finora, non ha interessato il parlamento, per una serie di motivi.

Innanzitutto, perché il parlamento non ha mai approvato una legge per la disciplina della procedura da utilizzare, che pure sarebbe opportuna perché l’art. 116, III comma Cost. l’abbozza solamente, lasciando irrisolte molte e gravi questioni. Tanto è vero che nel 2007 il governo presentò un disegno di legge in materia che però non fu discusso per la fine prematura della legislatura.

Inoltre perché, nonostante il quadro di incertezza in merito alla procedura, il processo è stato irresponsabilmente avviato, con la stipula di tre accordi preliminari, dagli esecutivi regionali e da un sottosegretario del precedente governo il 28 febbraio scorso, quando le camere erano ormai sciolte e non potevano pertanto esprimere nemmeno indirizzi. Questi accordi preliminari, infine, hanno persino preteso di sancire regole procedurali per vincolare le modalità di approvazione delle future intese, con l’intento di esautorare anche i poteri del parlamento che i cittadini stavano per eleggere proprio in quei giorni.

In particolare, senza alcun dibattito e in assenza di un adeguato approfondimento, questi accordi hanno previsto che le intese per l’autonomia differenziata debbano essere approvate sulla base della prassi che si è consolidata in materia di intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica (previste dall’art. 8, comma 3 Cost.), cioè con una procedura che riserva al parlamento una mera funzione di ratifica (o meno) degli accordi raggiunti dal governo.

Ora chiunque comprende che le intese con confessioni religiose sono cosa affatto diversa da intese destinate a confluire in una legge in cui sarà contenuta la disciplina differenziata dei poteri delle regioni, che ha una portata sostanzialmente costituzionale. Questa legge, infatti, è abilitata a derogare al riparto di competenze tracciato dall’articolo 117 della Costituzione e pertanto ad influire sia sui complessivi equilibri tra il centro e il sistema regionale nel suo complesso che sulla tenuta del principio di unità della Repubblica (con riferimento all’ampiezza dei compiti sottratti allo Stato e alle modalità di finanziamento delle funzioni regionali).

Spetta, dunque, al parlamento riaffermare le sue prerogative e rassicurare l’opinione pubblica nazionale allarmata per gli effetti che la differenziazione regionale avrebbe per l’unità della Repubblica e per il ruolo dello Stato come interprete degli interessi dell’intera collettività nazionale. Urgono pertanto un dibattito parlamentare e l’approvazione di una legge che sciolga i nodi problematici della procedura solo abbozzata dall’art. 116, comma III cost., in modo tale da incanalare il percorso dell’autonomia differenziata nel solco dei principi costituzionali, voltando così radicalmente pagina rispetto a quanto accaduto dal 28 febbraio 2018 ad oggi, periodo in cui una questione di importanza cruciale per l’intera collettività nazionale è stata trattata nel segreto delle stanze (di alcuni) ministri, tendendo all’oscuro l’opinione pubblica e i rappresentanti della collettività nazionale.